Agosto 2011
PRESENTAZIONE DI UN AUTORE :
INDRO MONTANELLI
Nel decennale della sua scomparsa
IL NOME
Un giorno, Montanelli saliva verso una baita nell’anfiteatro di Cortina. Era d’estate e c’erano con lui i discepoli del momento. Si sentivano contro i sassi i puntali degli alpenstock e cornacchie dalle ali nere volavano verso la Pusteria.
Uno dei discepoli, col respiro accorciato dall’erta, giudicò che quello fosse il momento, o subito o mai più, e osò al cospetto della valle: ”Montanelli! Di’ la verità che ti chiami Cilindro!”.
Lo sparo parve rintronare. Montanelli fermò. Tutti - in gradazione- finirono di fermarsi, come una colonna someggiata. Montanelli si asciugò il sudore col dorso della mano, tanto il fazzoletto messo nelle tasche da Colette non l’avrebbe mai trovato. Tutti si asciugarono.
“Coglione!”, redarguì la voce toscana. E tanto per ribadire il concetto: ”Bischero che ‘un sei altro. Bischeraccio!”
Adesso, si dilatava l’attesa generale. Il supposto Cilindro individuò un masso nel gran verde del pascolo, vi s’installò regalmente e – lui assiso e tutti gli altri sugli scarponi – prese condiscendente a ridire per l’ennesima volta la storia di suo padre, professor Sestilio, che sfidando la querula parentela di Fucecchio snidò dalla mitologia indiana un provocatorio Indro, semplicemente un Indro. E glielo applicò. Chiaro per tutti?
AL LAVORO
A Montanelli piace parlar da solo. E nessuno sa cosa vada dicendosi. Anche martellando i tasti della sua rachitica portatile italiana, senza coperchio come una mezzacoda da concerto, muove la bocca. Lo si vede al tavolo di lavoro, con il lume acceso in pieno giorno, mentre s’induce a smorfie creative, smette di cercare i tasti per far recitare le sue stesse mani sotto il ripiano dello scrittoio e dar loro mezza voce.
Usa la mano destra come protagonista, la sinistra come antagonista. E le fa battibeccare tra loro alla ricerca del bandolo. Afferrato il bandolo, rituffa il lungo naso sulla tastiera e smaglia la prosa. Che non è scevra di pentimenti. Molte righe risultano cancellate, ma senza astio. Semplicemente cassate con una righina filiforme di biro. Neanche gli spazi laterali del foglio sono mai rispettati. E’ tale la vocazione di Montanelli allo scrivere, che il corso delle parole – appena gli affluiscono – potrebbe continuare sul carrello dell’Olivetti, proseguire sul paralume e sul telefono, affacciarsi all’uscio del corridoio, formichine d’autore sulla moquette.
IN TRATTORIA
Indro è inappetente. Questo tipo di grandi magri – i longilinei in fil di ferro – fanno duecento chilometri con un litro. Gli basta niente a vivere. Indro carbura a fagioli, come i cinesi a riso. Solo che i fagioli hanno da essere, tassativamente, toscani. Il fucecchiese sbarca alla trattoria di qualche campagnolo d’Altopascio inurbato a Milano. E l’oste ci marcia.
La scena era sempre la solita. Montanelli, come compagno di amici di ventura, li voleva per le spicce tutti alla sua tavola d’occasione. E non per quelle che chiamano –desolante - colazioni di lavoro. Per stare insieme, invece, e desinare raccontando.
Indro entrava a lenti passi nel locale, e gli amici dietro. Il tavolo era riservato, l’oste si faceva sotto e principiava la giostra.
“Direttore, ci avrei du’ fagioli all’olio ….”
E Indro: “Mangiateli te!”.
“Ma sono toscani, signor Direttore!”
“Proprio dei nostri?”
“Dei nostri, sor Direttore.”
“E la boccetta dell’olio bòno c’è?”
“Eccola!” (La nascondeva dietro la schiena per subito esibirla.)
“C’è un cantuccio di pane mio?”
“Pronto.”
“E il fiasco del vino fino?”
“Arriva al volo”.
A un tratto, convocava perentoriamente l’oste, già all’erta per il caffè. “Vecchio mio , invòltami il pane nella carta che me lo porto”. Arrivavano d’urgenza la carta argentata, con dentro il pane casareccio, e il caffè bollente. E la voce di Indro tesseva quindi sempre ampie considerazioni per il caffè che il bravo oste toscano sapeva fargli.
All’uscita dalla trattoria c’erano già pronti i questurini e la blindata. E qualcuno, tra i passanti, avrebbe potuto chiedersi: chissà cosa tiene in saccoccia Montanelli: si vede la tasca rigonfia e lui ci posa sopra la mano, come a tutelarla. Nessuno avrebbe potuto pensare che in quegli anni insanguinati, chiamati poi “di piombo”, il già bersagliato Indro andasse in giro con un tozzo di pane toscano da imburrare l’indomani, e ne fosse geloso custode.
A proposito del caffè la sua Colette (che è poi la raffinata Donna Letizia dei dialoghi con il mondo) narrava che a Natale, fin quando furono vivi i genitori di Indro, andavano da loro. “E si stava a tavola assieme, lieti di una circostanza rara”. La domestica di casa, rispettosa del Signorino diventato famoso, aveva un gran modo per dimostrargli venerazione: portargli il caffè per primo, al levar delle mense, e compiacerlo senza riserve. Arrivava dunque il caffè ed ecco Indro: “Che buon caffettino, com’è fatto bene, com’è bello caldo, che consolazione!”. Avesse detto una volta, una volta sola, racconta Colette: “Mamma, papà, Colette: volete voi il mio caffè? Prego, prendetelo, senza complimenti”. Macchè, non gli veniva neanche in mente. Questo è Montanelli”.
LA SUA GIORNATA DI LAVORO
Le segretarie, alle cinque precise, fanno un brodino di dadi vegetali svizzeri per il Direttore che ne sente l’uzzolo. C’è un fornellino elettrico in segreteria, i dadi vengono comprati a Chiasso. Indro sorbisce, senza spostarsi dal tavolo direttoriale.
In definitiva, resta al governo dieci ore al giorno, anche di più: vuol controllare gli elzeviri, i fondi, i fondini, i mezzifondi, i tagli bassi, la spalla, i corsivi, i titoli, le pagine speciali. E legge, legge, scotendo il capo come a meravigliarsi che si scriva così male o che si scriva così bene. Si riserva l’arte di prosciugare qualunque dattiloscritto ne abbisogni. Dice di sé: “Son più bravo a tagliare che a scrivere”:
Interviene da chirurgo estetico: piccoli tocchi, bisturi, taglio, tampone, bisturi, pinze. Non si è mai capito se Indro scriverebbe volentieri – e da solo s’intende – l’intero giornale. Forse però non sarebbe necessario, basta il suo articolo firmato. Egli senza alcun dubbio stima che quello basti e avanzi per un pasto completo del lettore. Tutto il resto – firme o non firme – è complementare, sono stuzzichini, contorni o dessert.
Arriva in redazione alle undici. Certi giorni di burrasca atmosferica, zoppica. Sta un po’ rigido e perplesso sui trampoli, meglio evitare di vederlo subito.
I redattori indagano presso le segretarie: “Come va il Vecchio?”. Nessuno vuol mettere spontaneamente la testa nelle fauci del leone.
Montanelli fu insomma un anacoreta laicista con queste caratteristiche: - pan toscano alla contadina, velato di muffa – cibo: quasi niente – un dito di Chianti – un rivoletto d’olio toscano – passeggiate per parlare a se stesso e indurre l’intestino spoglio a qualche benefizio – nessun senso di possesso – l’esile filo di fumo di una Turmac (scatola bianca) – i capelli tagliati e sfoltiti da un fattorino, ex-figaro del sud – vestiti scelti e associati da Colette – difficoltà di compilare un assegno – camere di residence come celle di contemplazione: un letto da campo, un tavolo, una scranna, un portabiti lungo come lui, qualche libro di moralista del Seicento - nessun archivio: solo memoria o memento di qualche particolare – nessuna collezione di scritti montanelli ani (tanti nel tempo) -
I MARCHINGEGNI DEL MOMENTO
Cosa diceva il nostro Montanelli del “computer” ? Troppo complicato per un artigiano della Olivetti come lui che non aveva neanche preso la patente per evitarsi complicazioni. Era anche un bel presuntuoso questo nuovo arrivato, incapace di volontà propria e senza guizzi di pensiero, un capoccione insomma imparaticcio. Il telefonino poi ! Indro lo avrebbe accettato in dono come una cravatta sbagliata, considerandolo per le spicce un “coso” intrusivo e inopportuno, un “grillo parlante” da dileggiare invece che baloccarsene. E i messaggini, poi: parole al vento, frutto di stitichezza e non certo di sintesi!
GLI OCCHIACCI DELL’ERETICO
Nessuno ha mai saputo a quali fonti Indro abbia fatto provviste d’acqua. La Storia, per esempio: si dice legga molto per incorporare tutto come il cammello, poi parta. Ma la sua biblioteca non è celebre. Non ha mai avuto un archivio da consultare. Tutto in testa.
I giornali : li annusa, non li legge. O li legge in segreto, in quelle sue celle di residence. Certo non prende appunti. E se li ha presi li perde.
La gente : ha conosciuto l’Italia di prima e l’Italia di adesso, senza l’obbligo di frequentazioni. Vede sempre il solito – un po’ annoso – Circolo Pickwick degli amici adattabili agli umori.
Politici : non ne vuole all’uscio.
Preti : diffidare.
Giornalisti : categoria in estinzione, non può essere categoria.
Donne : come i preti, ma forse con rinnovati correttivi.
Gran mondo: da snobbare, comparendoci come per sbaglio.
Televisione : pallone fiorentino e boxe.
Automobile : non ha mai avuto la patente, “Non è cosa per me”.
Telefono : uso disincantato con i potenti, strapazzate per i politici, tenerezza per qualche amico che rispunta, briglie sciolte con i lettori che l’hanno trovato in giornata.
Conferenze : “Fatemi delle domande”.
Progetti : “Vorrei chiudere la vita in mezzo ai miei compagni di lavoro, con il capo che mi cade sulla macchina da scrivere”.
MOMENTI DI DISTENZIONE
Alle tre di un pomeriggio affogato in un caldo asfissiante sono in tre nelle stanza della direzione. Bussano all’uscio, si presenta un piccolo uomo con un drappo nero appoggiato al braccio. E’ il sarto di Indro, porta un vestito nuovo da provare.
“Oh, no, non adesso”, si secca subito Montanelli.
E il piccolo sarto, ben pettinato e lucido di sudore: “Ma Direttore, ho traversato tutta la città”.
Si guardano tutti, in sospensione. Indro si alza e taglia corto: “Capisco, amico, ma la prova non si può fare. Io, l’estate, non porto le mutande”.
Altro momento di attesa generale: Indro sulle sue, gli altri esilarati, il sarto deluso che dà sospiri e rimane infelicemente in bilico.
“Bè”, stabilisce Indro con un gesto di sanatoria, “tanto abbiamo fatto tutti il soldato”.
Si volta verso la tela di Maccari appesa alla parete dietro la sua scrivania, gli altri fanno finta di nulla ma la coda dell’occhio percepisce, i lunghi pantaloni calano, sono già a mezz’aria, vanno ancora giù, e Montanelli si volge un attimo con le brache in mano. Gli occhiacci dell’eretico saettano un guizzo, che forse è una rivincita: “Se lo sapesse Colette!”.
IL PADRETERNO E MONTANELLI
“La fede è un dono, eppure io non l’ho ricevuto e invidio quelli che credono. Dunque, se c’è un Aldilà, non potrà essere il Padreterno a chiedermi perché non ho creduto, ma sarò io a esigere spiegazioni da lui”.
Viene allora spontanea una domanda: “Il Signore parlerà a Montanelli, come lui ha chiesto, o gli sarà negato l’incontro perché è nella vita che bisogna riconoscere Cristo? La speranza nella misericordia del Padre ci nega o ci permette di ipotizzare un dialogo franco e decisivo tra Dio e l’Indro che ha creato ?”
Il Nostro fu un caposcuola con bottega artigiana e porta aperta, giornalista irripetibile e mai maestro in cattedra. Passando il tempo, era sempre lungo, solitario, talora aggrondato al punto di parlar da solo, tal’altra sarcastico per insorgenze interiori di sprezzo, irriverenza, sfida e forbito nichilismo. A 92 anni confermò per iscritto nella sua ultima “Stanza” la folgorante conferma di sé stesso: no a funerali religiosi o civili con grancassa che invece furono celebrati con tanti che gli volevano bene nella piccola patria di Fucecchio.
Giorgio Torelli pregò l’amico Beppe Gualazzini, inviato del “Giornale” alle esequie, di fargli avere una cartolina da inviato speciale per dirgli, in confidenza, quel che aveva visto. Questo il testo su una cartolina illustrata con la chiesa di Fucecchio:
“ A Giorgio Torelli eccetera. Carissimo maestro, faticherai quanto me che sono zuppo a crederci, ma la striminzita urna che contiene in cenere le esagerate lunghezze di Indro, il suo fiero cinismo e le sue infantili dolcezze, ma anche la genialità, arriva preceduta da improvvise nuvolaglie, screanzati colpi di vento. Scrosci che spaccano un cielo terso e blu da settimane, e il barbiere della città alta scuote la testa: “Gli è tornato Indro, accidenti a lui”. Beppe”.
Montanelli si era preparato il necrologio puntualmente riportato dal suo “Corriere della Sera” : “Giunto al termine della sua lunga e tormentata esistenza, Indro Montanelli, giornalista (Fucecchio 1909) prende congedo dai suoi lettori ringraziandoli dell’affetto e della fedeltà con cui l’hanno seguito”.
IL RIPUDIO DI SILVIO
Nel gennaio 1994, allorché Silvio Berlusconi decise la “discesa in campo” , a Indro mancavano tre mesi per compiere 85 anni.Aveva un’età disadatta ai colpi di testa ma per Montanelli l’anagrafe non esisteva. Uscito a precipizio dal “Giornale” di proprietà ormai del patron di Arcore dà vita in breve tempo a un altro quotidiano che si chiamerà “La Voce”. Una sfida temeraria nella quale s’immedesima con l’impeto che distingue i nevrotici e gli insonni del suo stampo.
Da allora fino alla morte Indro dedicherà a Berlusconi articoli implacabili che sempre denunciavano la “patacca” che il menestrello delle crociere, fattosi politico improvvisato e privo di scrupoli, voleva propinare all’Italia. Il vittimismo, le vanterie, l’innata volgarità, la vanità confessa di bugiardo, l’apoteosi dei sondaggi a pagamento, tutti i connotati del personaggio passati poi in proverbio, sono stati da lui puntualmente anticipati.
UNA PREFAZIONE PER LO SCRITTO DI UN AMICO
Le volte che qualche autore di manoscritti veniva ad invocargli una prefazione ne commissionava l’onore al primo redattore di fiducia comparso sulla porta – sempre aperta – della sua stanza di direttore. Il redattore sbiancava. Non riusciva a confutare l’incarico e si ritirava a casa per sperimentare la stesura imposta. Faceva e rifaceva, domandandosi se il dettato sarebbe stato all’altezza del compito prescritto sul campo. In fine, mite e mogio, si profilava davanti ad Indro (ormai immemore dell’incarico che gli aveva imposto): “Direttore, ho qui la prefazione che mi ha affidato”. “Quale?”. “Quella per il suo amico”. “Amico? Ah sì , rammento, fammela vedere!”. Allora la leggeva adagio, col naso quasi a sfiorare le cartelle e il piede destro che ritmava non si sa quale ritornello. Poi, la sentenza:”Grazie. Questo che hai scritto con impegno è il miglior Montanelli!”. Alle stampe!
I MISSIONARI
Per lui i missionari erano tutti eroi perché abbandonavano la bella Italia per andare a vivere tra i più poveri dei poveri, spesso in capanne di fango e paglia. Non servivano né le diplomazie con i loro”protocolli”, né gli eserciti con le loro armi. Servono solo i missionari se vogliamo aiutare l’Africa, aiutiamo loro! Diceva sempre che per soccorrere quei popoli disgraziati un metodo c’era ed infallibile: Dare la gestione dei miliardi di “aiuti” ai missionari e solo fra questi ultimi grandi “crociati” della civiltà cristiana la Chiesa avrebbe dovuto sempre reclutare i suoi santi.
GLI ASCARI
Il tenente Indro s’era lasciato affascinare dagl’imperativi mussoliniani: conquistare con il ferro il “posto al sole”. Così, a ventisei anni, aveva piantato le ben avviate esperienze giornalistiche in Francia ed America per sgavettare in Abissinia con le truppe d’attacco.
Comandava un gruppo di ascari, soldati senza stellette ma con inclinazione al totale rispetto per il signor ufficiale bianco. Questi giovani nativi erano fierissimi di avere un fucile, le cartucce, le bombe e il fez a tronco di cono che faceva loro riscuotere con facilità l’ammirazione delle donne che stravedevano per questi guerrieri canterini e fantasiosi. Gli ascari erano inarrestabili negli assalti e ingenui negli accampamenti, affascinati da qualunque affermazione del loro tenente.
La banda degli armati era seguita a varie centinaia di metri dal gruppo di donne con i loro asini, le tende, le pentole, la legna, l’acqua, la farina, lo zucchero e le promesse d’amore. Queste donne avrebbero poi messo il campo, lavati i piedi ai mariti, accesi i fuochi, cucinata la focaccia sulle pietre roventi, sciacquati i panni, governati i quadrupedi e poi consolati i guerrieri nell’immensità dell’altissima notte stellata.
Fu proprio per questo notturno rimescolarsi di ascari e di mogli che il giovanotto Montanelli ebbe in sorte una “sposa” eritrea a termine. Agli indigeni appariva increscioso che il biondo comandante stesse sempre – solo e inconsolato - a scrivere qualcosa sotto la tenda mentre tutti loro si confortavano con la compagnia di una bella moglie, servizievole di giorno e sospirosa appena spento il braciere.
La prescelta fu una fanciulla del villaggio che Indro non avrebbe mai scordato arrivando – quaranta anni dopo – a tenerne appesa la sbiadita fotografia nel suo ufficio. Destà dai grandi occhi avrà avuto allora quattordici anni, un’età in cui le donne africane raggiungono la pienezza del loro destino di donna. E non è che Indro se ne innamorasse. L’ebbe cara, ecco tutto. Lei sposò il capo degli ascari che erano stati sotto il comando di Montanelli ed al loro figlio dettero un nome particolare: Indro!.
HANNO DETTO DI LUI
Emilio Radius, scrittore, grande giornalista diceva: “Montanelli è un lanternone ma dinoccolato, nemico di nessuno salvo i prepotenti, amico specialmente di quanti sono in disgrazia per un motivo o per l’altro. Non è superficiale. E’ però, uomo di primo strato. Sotto una fuggevole apparenza di inquisitore, è un avvocato difensore. Nonostante le grandi soddisfazioni avute, rimane nervoso e irrequieto”.
Tommaso Giglio: “Montanelli è un giornalista capace di dare giudizi dettati dalla propria convinzione e non dalla propria funzione”.
Giorgio Bocca: “Dico bello e non bellastro, una specie di cui il mondo è pieno. Un bello che fa immediata giustizia di tutte le sue caparbie scelte sbagliate, di tutte le sue impuntature. Un bello di uomo generoso, civile, libero. Indro, a volte, gioca a fare il toscanaccio rude e tagliente. Forse lo è, ma non gli impedisce di essere uno dei pochi signori che frequentino le redazioni e che abbiano rispetto del nostro mestiere. E’ da signore la compostezza, la calma con cui ha resistito negli anni settanta a una diffamazione ossessiva da parte di una sinistra conformista che ne aveva fatto la bestia nera della Repubblica. Gli sono amico perché è una delle rarissime persone con cui sia ancora possibile conversare, che è un gioco a due, non l’esternazione di luoghi comuni. Gli sono amico perché ogni mattino alle dieci va al suo posto di lavoro dove lo attende la mitica portatile. Lo ammiro per come sa vivere conoscendo la follia della vita”.
Mario Cervi, autore con Indro dei tredici volumi della Storia d’Italia che dovrebbe essere adottata in tutte le scuole italiane giudica Indro con la definizione più secca e veritiera di chi lo conosce benissimo ; “Montanelli è un genio”.
I SUOI SCRITTI
Il suo capolavoro fra tanti libri è la Storia d’Italia che nel 1974, in occasione della edizione economica della BUR, lo stesso autore presenta così:
“Scrivo unicamente per i lettori, usando la loro linguae misurando il mio passo sulla loro gamba. Anche se questo pubblico è in prevalenza composto di operai, artigiani, insomma di gente che non ha avuto modo di istruirsi , sono convinto che mi comprenderanno.
Della mia storia posso garantire l’esattezza dei dati non l’obiettività dei giudizi. Chi si attribuisce un’assoluta imparzialità è un mentitore, anche se in buona fede.
Ho voluto scrivere e credo di avere scritto per degli uomini una storia di uomini, non di Eroi, perché gli Eroi non esistono, o per lo meno non sono come vengono di solito raffigurati: anch’essi hanno le loro debolezze e manie e meschinità.
Io non mi sono messo a scrivere la Storia per ricostruire il passato, ma per cercare nel passato i perché del presente. Sono convinto che non saremmo ciò che siamo, se non fossimo stati ciò che fummo.
Voglio dire insomma che se cerco di offrire al lettore il quadro dell’Italia di ieri fin dall’antica Roma, è per aiutarlo a capire quella d’oggi e non lo nascondo cerco anche di riuscire a divertire il lettore”.
NON VOLLE ESSERE SENATORE A VITA
Nell’Italia che non conosce la parola “dimissione” o “rinuncia” Indro Montanelli rifiutò la nomina a senatore a vita per il semplice motivo che secondo lui “Un vero giornalista, per restare libero e mai condizionato, dovrebbe essere scapolo, orfano e bastardo”.. Aggiungeva, poi beffardo, un codicillo: “Fate voi”.