Aprile 2011
PRESENTAZIONE DI UN LIBRO:
SULLA SPIAGGIA E DI LA’ DAL MOLO
Di Mario Tobino - Ediz. Mondadori
Alla Casa Culturale di San Miniato Basso abbiamo avuto recentemente il piacere di aver assistito alla presentazione del libro della Signora Atonia Guarnirei “Cinque anni con Mario Tobino” . Questa lieta occasione ci ha spinto a dire qualcosa su un’opera del dottor Mario Tobino sulla sua amata Viareggio. Il libro del 1966 è “Sulla spiaggia e di là dal molo”.
Nel dodicesimo secolo circa quattrocento persone che non avevano trovato ospitalità in altre parti si radunarono in povere capanne in mezzo alla palude con piccoli canali, fossi ed acquitrini, nella zona contesa tra lucchesi, fiorentini, genovesi e pisani.
Per secoli rimasero dello stesso numero. Questi i primi viareggini che si attaccarono a quel luogo. Vivevano come in un’isola. Nasce da lì, da quel nucleo, da secoli felici, la dolce anarchia. Non tradimenti, brama di denaro, superbia, uccisioni, esilio di grandi cittadini come avveniva nelle vicine città toscane. A Viareggio vissero puri per sei secoli.
Nel 1740 il matematico veneziano Bernardino Zendrini trovò la soluzione per bonificare questa zona agendo opportunamente sul canale Burlamacca e sulle acque del lago di Massaciuccoli. La terrà rifiorì, la malaria fu soffiata via e Viareggio cominciò a popolarsi.
Vi arrivarono gli inquieti, gli irrequieti, gli insoddisfatti, gli insofferenti di tutti i luoghi vicini perché era un sito nuovo, senza conformismi, senza nobili famiglie locali o pastoie burocratiche. Erano tutti novelli, tutti fuggiti da qualche cosa, tutti con la voglia di indipendenza.
Ci venne anche il padre di Mario Tobino, un farmacista figlio di contadini dei monti della Lucchesia , insieme al padre di Lorenzo Viani e ci rimasero per tutta la vita.
Quando nel mare trionfava la vela, nel periodo fra il 1840 e il 1920, i costruttori viareggini erano i più bravi del mondo. Quando una barca di Viareggio arrivava in un attracco del Mediterraneo tutti la distinguevano. In ogni porto la spiavano mentre si avvicinava, studiavano le manovre che faceva, con quante bordate entrava in porto, sempre più presi dalla sua inconfondibile linea, dalla sua leggerezza, la sveltezza ; come era forte a gareggiare in mare. Con ammirazione ed invidia la seguivano finché attraccava alla banchina. I bastimenti di Viareggio erano detti “gallettati” perché del gallo avevano il movimento e la luce.
Quando ancora avevano pochi denari costruirono per la pesca le paranze e poi passarono al trabaccolo e finalmente arrivarono gli schooners, due alberi, vele quadre sulla prua, vele quadre sul trinchetto e vele latine sulla maestra; veri capolavori.
Con queste nuove navi si uscì dalle acque vicino a casa, i viareggini diventarono marinai, cominciò per loro il periodo glorioso dei grandi calafati guidati da grandi navigatori.
Dopo gli shooners vennero i barcobestia con tre alberi. Chi non ha navigato non può sapere la fedeltà di queste navi e che tenerezza c’è nel suo bastingaggio. Il barcobestia fu l’ultimo capolavoro di Viareggio, poi venne il ferro. Gli anni erano corsi felici, come puledri.
Tanti i capitani di grande valore ma i più bravi di tutti furono senza dubbio gli Antonini. Uno di loro, il più giovane, Angelo divenne inseparabile amico del barone Ruggeri che si era innamorato di questi lidi dove si era fatto costruire un castello.
Il barone Ruggeri convinse Angelo Antonini a realizzare per lui un piccolo cutter al quale fu dato il nome di Lucia. Con questo piccolo scafo cominciarono a bordeggiare insieme davanti a Viareggio spingendosi fino a Livorno, La Spezia e all’Isola d’Elba.
Angelo Antonini aveva da tempo in animo di misurarsi con i signori della vela che ogni anno gareggiavano in una regata internazionale davanti a Viareggio. Erano costosi e bei velieri che venivano dalla Francia, dalla Spagna e dall’Inghilterra. Angelo li voleva sfidare con il suo piccolo cutter e il barone Ruggeri fu subito d’accordo di sostenere le spese per le necessarie modifiche al piccolo scafo per farne una barca anche d’alto mare.
Le barche in gara manovrarono prima della partenza nello specchio d’acqua antistante le boe e al colpo di pistola l’Antonini fu subito primo con la Lucia seguita dalla famosissima Miss Mery che aveva sempre vinto. Angelo vinse la bolina, vinse il lasco, vinse la poppa e ogni volta che la Miss Mery tentò di manovrare per superare la Lucia trovò l’Angelo Antonini attento al timone come alle bilancine il farmacista, fermi gli occhi al fiocco e alla prua dando grande delusione al nocchiero francese.
Quindici giorni dopo c’era la rivincita nella regata per Nizza con partenza da Cannes. Nella nottata prima della partenza si scatenò una grande tempesta con vento fortissimo e mare paurosamente arruffato.
La giuria voleva sospendere la gara ma l’Antonini disse tranquillamente il suo parere sostenendo che aveva navigato con mare peggiore di quello che aveva davanti. Lui sicuramente all’ora stabilita sarebbe partito.
IL presidente della giuria salì sulla Lucia insieme ad Angelo ed al barone Ruggeri e si prepararono per raggiungere Cannes. Mentre gli altri cutter si dondolavano legati nel porto solo Angelo Antonini con la sua Lucia e la Miss Mery si apprestarono ad uscire dal porto ma la barca francese non riuscì a virare bene e il vento tutto di prua la teneva ferma, ammainò le vele e tornò indietro. Angelo andando di bolina, stringendo, guadagnando al vento, si piegava ma continuava a correre, a essere viva. Fu sulle bocche, sfiorò gli scogli e poi fu libera nel mare. Già scompariva dietro un’onda e riappariva alta e allegra, come una farfalla inebriata dai fiori.
A Nizza la folla accolse con entusiasmo il capitano viareggino che fu considerato vincitore della gara perché nella legge marittima è la virtù e il coraggio che pesano sul piatto della bilancia e non la timidezza.
Ma era l’Atlantico il sogno di Angelo Antonini e allora anche se mai un cutter aveva mai tentato la traversata i nostri amici dopo aver cambiato il bompresso facendolo in ottone, con nuove vele cucite dallo stesso Angelo e con tre nuovi marinai a bordo decisero di organizzare questo pazzo viaggio di settemila miglia.
Il piano di Angelo prevedeva di costeggiare la Liguria e poi la Francia, il golfo del Leone era un vecchio suo amico, quindi tutta la Spagna e infine addio al monte delle scimmie a Gibilterra per puntare verso Madeira. La Lucia quindi avrebbe avvistato il picco della Teneriffa e, messa la prua verso sud, passare da capo Sao Vicente, capo San Nicola, isola San Paolo e, oltrepassato l’equatore, filetta - filetta, puntare a Montevideo.
L’oceano si distendeva immenso e il celeste del cielo si specchiava in quello del mare. Un giorno apparve all’orizzonte un occhio nero, prima piccolo e via via si ingrandiva. E’ un transatlantico genovese disse l’Antonini che l’osservava con il cannocchiale. Viene verso di noi perché forse pensa che siamo dei naufraghi, preparate le bandiere per il saluto. Il transatlantico era carico di emigranti, italiani che andavano in America in cerca di fortuna. Il cutter fece manovra, mise la prua contro il vento e si fermò. Il vapore si accostò a portata di voce e si vide la sproporzione tra quell’immensa massa scura e la bianca farfallina della Lucia. Le eliche del vapore tacquero e al comandante del vapore che chiedeva se avessero bisogno di niente Angelo rispose allegramente che avevano bisogno solo di vento e che per piacere desse notizia di loro quando arrivavano al porto.
Poi immancabile, dopo aver passato l’equatore, giunse una grande tempesta. Il barometro scese, l’aria divenne afosa, il vento invaso da una angoscia, le acque bollirono, il cielo divenne nero, si spalancarono i lampi e corsero i fulmini. Il capitano Angelo aveva fatto serrare tutte le vele e prese lui il timone.
Si vide la sua maestria ! Il guscio nudo della Lucia manovrata solo dal timone era rapido all’obbedienza e con questo tenere sempre la poppa alle onde, non lasciarsi mai investire di fianco, usando la direzione del mare come un vento nessun maroso scoppiò sulla piccola barca, che l’avrebbe affogata. Ore e ore durò questa gara, fuggire ed usare il corso della tempesta. L’oceano è immenso e l’Antonini aveva spazio quanto voleva.
Infine il vento e la rabbia dei cavalloni si chetarono. Tornò la pace, spirarono i lieti venti alisei. La Lucia riaprì le vele, riprese il suo cammino e il quarantasettesimo giorno di navigazione si pavesò con tutti i suoi nastri e bandierine per salutare Montevideo.
A Viareggio c’è un viale una volta chiamato Margherita, oggi della libertaà, detto popolarmente la Passeggiata. Oggi la Passeggiata è quella che è,Tobino ci racconta come era prima del 1930 quando il duca Salviati,il fascista podestà di Viareggio, la tramutasse.
La Passeggiata allora era tutta di legno, le costruzioni erano soltanto baracche, alte pochi metri; ciascuna era il ritratto di chi l’aveva ideata, il suo modo di pensare, non c’erano imposizioni, ognuno faceva secondo il suo estro, poteva esprimere una nostalgia, la modestia, oppure la sua speranza, la sua bizzarria. Vi era libertà anche per i colori e le fogge erano le più diverse. Quasi tutte ricordavano le faccende del mare e così in quella v’era l’ombra del cassero, in altre le sagome di grossi barconi, in alcune la sveltezza delle golette. E tra di loro e sopra i tetti si muovevano grandi bandiere, sculettavano le garrule multicolori bandierine dei pavesi.
Verso il 1930, il fascismo era ormai pieno, i giornali cominciarono a pubblicare che quelle baracche rosa, rosse, bianche, grigie, quelle costruzioni che ricordavano tolde, prue, relitti di bastimenti, carene abbandonate, erano un vecchiume, un segno di lazzaronismo italiano. I giornali cominciarono a dire che quella Passeggiata era una vergogna, un’accozzaglia di volgarità, un controsenso nella nuova Italia imperiale e fascista, esempio agli altri popoli di civiltà, e il duca, il podestà di Viareggio, aveva il compito di pulire tutto ciò, fare un piano regolatore , spazzar via quell’immondezzaio.
Il podestà era un duca, di antica casata, forse non aveva mai frequentato un mestiere, un signore che di Viareggio non sapeva nulla.
Venne l’ordine che le baracche dovevano essere distrutte, tutti i colori trasformati in quello unico della calce. I padroni di quelle baracche, dei modesti cinematografi, dei negozi costruiti con quattro tavole e l’impiantito in legno, non erano diventati ricchi né avevano mai pensato di poterlo divenire. Avevano vissuto secondo le stagioni, d’inverno a pescare e ad attendere, di primavera a preparare per la prossima estate, facendo debiti. Di autunno a spendere allegramente il gruzzolo affastellato nella gloriosa estate.
Quasi tutti i cittadini della Passeggiata assomigliarono in quei giorni agli indiani d’America quando non trovavano il perché dell’arrivo dei visi pallidi.
Le baracche crollarono. Furono distrutte le ingenue e felici geometrie, quelle sagome ispirate a casseri, poppe, pennoni; fu ferito l’estro dei viareggini che, senza cultura, istintivamente, avevano partecipato a ogni festosa inventiva europea.
Solo chi ci visse sa come era il fascismo, immobile, ipocrita, pigro di ogni idea, risultanza della parte più accidiosa della nostra storia, il peggio del nostro sangue.
Al posto delle liete baracche sorsero delle costruzioni in cemento armato disegnate da architetti di Firenze, disegni fatti in ufficio, senza neppure l’ombra della disavvedutezza dei viareggini, nessun lontano barbaglio di quel concepire la vita come una festa. Della Passeggiata rimase soltanto il ricordo, ancora più vivo perché radicato nell’anima.
Tra lucchesi e viareggini c’è sempre stata sorda e a volte fragorosa inimicizia, reciproco disprezzo, ottuso livore da ambo le parti, tanto che sembra strano un tale vivo sentimento tra due paesi distanti appena ventidue chilometri. Viareggio nacque da Lucca, sua dipendenza. In quella landa i signori lucchesi costruirono nell’ottocento le ville per venirci a giocare. Maria Teresa di Borbone poi creò Viareggio città e le cose cominciarono a correre. Arrivarono i forestieri da ogni dove ed i lucchesi contarono sempre meno.
I viareggini si erano scoperti marinai e costruttori di bastimenti e sentirono di avere un carattere così diverso da quello lucchese ! I lucchesi pensano sempre al denaro , i viareggini non ci resistono, la loro mente si perde in vaneggiamenti, in sogni. I lucchesi hanno il cerchio delle mura, che è contornato da un cerchio di monti, da secoli lì ruminano monete, tentati dalla lussuria e spaventati dal peccato, ugualmente bramosi di afferrare e consapevoli dell’odiata morte che li farà vuoti di ogni possesso. I viareggini hanno il mare, la spiaggia è molle e aperta, non conosce insenature o scogliere.
I lucchesi non hanno amici, non credono esista l’amicizia, la simulano per trarne beneficio. I viareggini stanno volentieri insieme ed all’aperto, la loro casa è la strada, le loro porte sono spalancate che ci entri l’aria, la luce, gli amici.
Lorenzo Viani nacque da un pastore della Lucchesia, da una famiglia che da secoli faticava sulla terra. Il padre un giorno si ribellò e scese al mare. Trovò lavoro nella tenuta che i Borboni avevano in mezzo alla pineta di levante; fu assunto come aiuto giardiniere.
Lorenzo da Bambino ebbe l’incubo di quei padroni, principi autoritari, aveva l’obbligo di nascondersi quando da lontano appariva la loro ombra. Ancora imberbe, fu messo garzone da un barbiere in piazza del mercato, nella zona più popolare. Nei giorni di festa entravano nella bottega a farsi fare la barba e capelli i contadini scesi dai monti ed i marinai sbarcati di fresco.
Lui piccolo, delicato, sensibile, si trovò a percorrere col pennello, a insaponare quelle facce corrose dal lavoro, tagliate dai venti, che si esprimevano con un gergo aspro, conclusivo, col quale si ordina invece di persuadere.
Delicato, destinato all’arte, si alzava sulle punte dei piedi per insaponare, ed ebbe le prime violente e incisive sensazioni, figure paurose, le sopracciglia cespugli, le mani dei paonazzi mattoni, le spalle navigavano al di là degli schienali, nel collo i solchi terrosi delle rughe. Furono sensazioni dalle quali non si poté mai liberare, un groppo di corde inestricabili, e il suo titanismo, i gesti troppo ampi, le orride maschere, i deformi, pescano le radici in quella dolorosa infanzia.
Presto gli scoppiò la passione per il disegno e la pittura. Scarabocchiava su ogni foglio, fu una felicità possedere i primi colori , stenderli sulla tela. E gli nacque una smania, la rabbia, la voglia matta di buttare all’aria, sbarazzare il campo, spezzare i pietrificati privilegi, prima di tutto quei Borboni, padroni assoluti, davanti ai quali è temibile perfino farsi scorgere. E si mise a frequentare i sovvertitori, gli anarchici. La miseria era la sua fedele compagna. Quelli della Camera del Lavoro lo amavano; in quei suoi disegni, nelle pitture vedevano se stessi, la loro ribellione.Poi il fascismo travolse tutto, vennero le squadre di azione, si instaurò il regime, ci fu il silenzio. Era proibito parlare, incontrarsi, festeggiare il 1° maggio in pineta intorno alle grandi tavolate.
I gerarchi passeggiano per il viale, famosi i gerarchi Carlo Sforza, Lando Ferretti, Marpicati, Augusto Turati, Franco Ciarlantini. D’estate la famiglia di Balbo affitta una villetta, presto verrà il giovane Ciano con la signora, la figlia del Duce, la contessa Edda.
Sono loro i padroni d’Italia, tutti devono stare zitti. I sovversivi, gli anarchici sono schedati; al più piccolo segno i neri hanno facoltà di bastonarli.