CASA CULTURALE DI SAN MINIATO BASSO
SEZIONE SOCI COOP DEL VALDARNO INFERIORE
APRILE 2012
L’ANELLO DI RE SALOMONE
DI KONRAD LORENZ
Questo libro è particolarmente indicato per i ragazzi che amano gli animali e che possono conoscere il padre dell’etologia. Dei capitoli del libro riportiamo solo alcuni brani per far capire come questo portabandiera di questa nuova scienza abbia lavorato con passione ed entusiasmo per portare avanti le proprie idee non subito accettate da tutti.
QUANDO GLI ANIMALI COMBINANO GUAI
Lorenz dice subito in questo libro “sarò eternamente grato ai miei pazienti genitori che si limitavano a scuotere il capo o a sospirare rassegnati quando, scolaretto o giovane studente,portavo a casa un ennesimo coabitante, prevedibilmente turbolento” e a proposito della moglie che lo ha sempre capito ed incoraggiato osserva divertito: “Chi mai oserebbe imporre alla propria consorte di lasciar circolare liberamente per casa un ratto domestico, che coi denti strappa tanti bei pezzettini dalla lenzuola per tappezzare la tana; o di permettere a un cacatua (grosso pappagallo) di beccar via tutti i bottoni della biancheria stesa in giardino ?”
“Ma sono proprio necessari tutti questi disagi ?” Lorenz risponderebbe con un energico e convintissimo “sì” perché secondo lui “Si possono tenere in casa degli animali anche rinchiudendoli in gabbie da salotto, ma gli animali superiori e dotati di una più vivace attività mentale si imparano a conoscere solo se si dà loro la possibilità di muoversi liberamente”.
La moglie del nostro scienziato inventò la “gabbia all’inverso”. Dice il Lorenz: “Tenevamo allora alcuni animali grossi e potenzialmente pericolosi: dei corvi imperiali, due cacatua dal ciuffo giallo, due maki e una scimmia cappuccina, tutti soggetti, soprattutto i corvi, che non era opportuno lasciare soli con il bambino. Così mia moglie in quattro e quattr’otto sistemò in giardino una grossa gabbia, e vi pose dentro …. Il pargoletto !”
Dice ancora il nostro che l’aspetto positivo che fa da contrappeso a tanti fastidi e infiniti guai provocati dagli animali che circolano liberamente per casa è che l’animale in libertà, che potrebbe fuggire e invece rimane perché gli si è affezionato, costituisce una fonte di gioia ineffabile. Si ricorda e dice di “Quando, passeggiando lungo la riva del Danubio, mi giunge il richiamo sonoro del corvo, e al mio grido di risposta il grosso uccello, lassù in cielo, ripiega le ali, si butta a capofitto facendo sibilare l’aria e poi, con una brusca frenata, viene a posarsi dolcemente sulla mia spalla, ciò mi ricompensa di tutti volumi lacerati, e di tutte le uova di anitra svuotate che il mio corvo ha sulla coscienza”.
UNA COSA CHE NON FA DANNI : L’ACQUARIO
“Non costa quasi nulla eppure è una cosa magnifica: coprite il fondo di un recipiente di vero con un pugno di sabbia pulita e piantatevi alcune pianticelle acquatiche, versateci sopra delicatamente alcuni litri d’acqua di rubinetto e ponete il tutto su un davanzale soleggiato. Quando l’acqua si è purificata e le pianticelle hanno incominciato a crescere, mettetevi dentro alcuni pesciolini; o, ancor meglio, recatevi con un vasetto e con un acchiappafarfalle allo stagno più vicino, immergete alcune volte la rete, e raccogliete una miriade di organismi viventi. In quella reticella per me è ancor oggi rinchiuso l’incanto della fanciullezza.” (Ricordiamo che l’autore ha scritto questo libro nel 1949 quando l’inquinamento era di là da venire. Ora, nello “stagno più vicino” sarà più difficile, raccogliere “una miriade di organismi viventi)
“L’acquario come ho descritto di fare è un universo, dove, come in uno stagno o in un lago naturale, come in qualsiasi luogo del nostro pianeta, creature animali e vegetali vivono insieme creando un equilibrio biologico. Le piante consumano l’acido carbonico espirato dagli animali e a loro volta esalano ossigeno”.
“Naturalmente si può anche impiantare un acquario “elegante”, con fondo artificiale e piantine ben distribuite ad arte; un filtro eviterà la formazione di fango e l’areazione artificiale consentirà di tenervi molti più pesci di quanto non sarebbe possibile in condizioni più naturali. E’ questione di gusti, ma per me un acquario è una comunità autonoma che si mantiene in vita grazie a un proprio equilibrio biologico”.
Nel mondo dello stagno e nell’acquario del tipo creato da Lorenz lo steso ci dice che vivono alcuni predatori terribili. Tenendo debito conto delle rispettive dimensioni, la voracità e la crudeltà raffinata dell’animaletto chiamato Dytiscus, eclissano quelle di celebri predatori quali la tigre, il leone, il lupo, la balena, il pescecane e la vespa. Tutti sono agnellini in confronto alla larva dei Dytiscus.
SANGUE DI PESCE
Nessun gruppo di animali è come i pesci tormentato dalle malattie infettive anche allo stato naturale di libertà e non gode certo della salute invidiabile cui fa pensare l’espressione corrente “sano come un pesce”.
E’ strana la cieca fiducia con cui si dà credito ai proverbi, anche quando sono assolutamente falsi o ingannevoli: la volpe non è più furba degli altri animali da preda, ed è assai più stupida del lupo e del cane e ancora constatiamo che la colomba non è affatto mite.
LE MIE PERENNI COMPAGNE
Il vento di primavera canta nella cappa del camino, e di fronte alla finestra del mio studio i vecchi abeti agitano le braccia eccitati e stormiscono. D’un tratto nel pezzetto di cielo visibile dalla mia finestra piombano giù dall’alto una dozzina di proiettili neri dalla forma aerodinamica. Gravi come pietre cadono giù fin quasi sulla cima degli alberi, poi all’improvviso dispiegano delle grosse ali nere e si trasformano in uccelli, in leggeri pennacchi che il vento impetuoso trascina via, sottraendoli al mio campo visivo.
Io mi accosto alla finestra per osservare il singolare giuoco delle taccole con il vento.
Giuoco ? Sì, giuoco nel vero senso della parola: dei movimenti praticati per puro piacere, senza alcuno scopo determinato. E, sia ben chiaro, si tratta di movimenti appresi, non di gesti innati e istintivi ! Tutti i virtuosismi di questi uccelli, l’abilità con cui sfruttano la direzione del vento, l’esatta valutazione delle distanze, e, soprattutto la conoscenza delle locali condizioni del vento e delle posizioni in cui, con un determinato vento, si creano correnti ascendenti, vuoti d’aria e vortici, tutte queste doti non costituiscono un patrimonio ereditario, ma sono frutto di una conquista individuale.
E che cosa non fanno col vento queste taccole ! A prima vista sembra che il vento si trastulli con loro come il gatto con il topo. Invece le parti sono rovesciate: sono gli uccelli a trastullarsi con la furia degli elementi. Ecco, sembra proprio che gliela diano vinta, che si lascino scagliare dal vento in alto, molto in alto, sembra quasi che cadano in cielo; poi, con un piccolo movimento negligente di un’ala si voltano sul dorso, da di sotto aprono per una frazione di secondo le superfici portanti contro il vento, si lasciano cadere con un’accelerazione molto superiore a quella di una pietra, poi con un altro minuscolo movimento dell’ala ritornano nella posizione normale, e ad ali quasi completamente chiuse si lanciano in una vertiginosa corsa di centinaia di metri contro il vento che vorrebbe sospingerli dalla parte opposta.
E tutto ciò non costa loro alcuno sforzo; è lo stesso gigante cieco che compie il lavoro necessario per spingere il loro corpo attraverso l’aria a più di cento all’ora: le taccole non fanno nulla, si limitano a pochi blandi mutamenti di posizione - quasi impercettibili – delle loro ali nere.
Una piccola taccola, con tutto il suo giovanile attaccamento per colui che l’alleva, costituisce naturalmente anche un interessantissimo oggetto di studio dal punto di vista scientifico.
In nessuna specie, neppure fra le affettuosissime e più che proverbiali colombe, la tenerezza dell’amore coniugale trova un’espressione così comprensibile e commovente come fra le taccole. E la cosa più bella è che questa tenerezza aumenta, non diminuisce, con il passare degli anni.
Le taccole sono uccelli assai longevi, e possono raggiungere età non molto inferiori all’uomo. E poiché si fidanzano nel primo anno di vita e si sposano nel secondo, la loro unione coniugale dura assai a lungo, forse più a lungo di quella degli uomini. E anche dopo molti anni il maschio continua a imboccare la sua femmina con la stessa tenerezza, trova per lei gli stessi toni sommessi, tremuli di contenuta eccitazione, quegli accenti amorosi che le aveva rivolto nella primavera del loro amore, che era anche la prima della loro vita.
L’ANELLO DI RE SALOMONE
Sta scritto che il re Salomone parlava con i quadrupedi, con gli uccelli, con ipesci e con i vermi.
“Anch’io”, dice Konrad Lorenz, “parlo con gli animali, seppure non con tutti, come sembra facesse il vecchio re, e ammetto la mia inferiorità su questo punto. Però parlo con alcune specie che conosco bene, e senza bisogno di un anello magico. In questo anzi io sono superiore al vecchio re, che senza il suo anello non avrebbe compreso neppure il linguaggio delle bestiole con cui aveva maggior dimestichezza.”
Gli animali non possiedono un linguaggio nel vero senso della parola, ma ogni individuo appartiene alle specie superiori , e soprattutto alle specie che vivono in società, come ad esempio le taccole o le oche selvatiche, possiede fin dalla nascita tutto un codice di segnali e di movimenti espressivi. E innata è tanto la capacità di emettere tali segnali quanto quella di “interpretarli correttamente”, cioè di rispondervi in modo coerente e propizio alla conservazione della specie.
Gli animali hanno un apparato trasmittente assai più efficace di quello dell’uomo, e lo stesso si può dire dell’apparato ricevente, che non solo è in grado di distinguere selettivamente un gran numero di segnali, ma, per attenersi allo stesso paragone, anche di captare una energia trasmittente assi inferiore alla nostra. Gli animali sono capaci di cogliere e di interpretare correttamente un numero incredibile di segnali minimi che per l’uomo sono del tutto impercettibili.
L’OCHETTA MARTINA
Era giunto il grande momento : per ventinove giorni avevo covato le mie venti preziose uova di oca selvatica; o meglio, io steso le avevo covate solo negli ultimi due giorni, affidandole per quelli precedenti a una grossa oca domestica bianca e a un’altrettanta grossa e bianca tacchina, che avevano assolto il compito molto più affettuosamente e adeguatamente di me.
Solo negli ultimi due giorni io avevo tolto alla tacchina le dieci uova biancastre , ponendole nella mia incubatrice (mentre l’oca domestica doveva covare fino alla fine le sue dieci uova).
Io volevo spiare ben bene il momento in cui sarebbero sgusciati fuori i piccoli, e ora quel momento fatidico era arrivato.
Molte cose importanti devono accadere in una di queste uova di oca selvatica: accostandovi l’orecchio si ode dentro scricchiolare e muoversi qualcosa, e poi, ecco, si percepisce chiaramente un flebile, flautato “piip”. Dopo ci vuole ancora un’ora perché si apra un buchino, attraverso il quale si scorge la prima cosa visibile del nuovo uccello: la punta del becco, con sopra il cosiddetto dente dell’uovo; il movimento del capo con cui il dente, dal di dentro viene spinto contro il guscio dell’uovo, provoca non solo la rottura del guscio, ma anche uno spostamento dell’uccellino che vi giace dentro tutto avvoltolato su se stesso, e che lentamente gira all’indietro attorno all’asse longitudinale dell’uovo. Il dente si muove dunque dentro il guscio lungo un “parallelo” sul quale apre una fila ininterrotta di buchini; alla fine, quando il cerchio si è chiuso, l’uccello con un movimento di estensione del collo riesce a sollevare l’intera calotta del guscio.
Lentamente, a fatica, si libera allora il lungo collo, che non riesce ancora bene a sostenere il pesante capino. Anche la nuca rimane incurvata nella posizione che ha avuto nell’embrione fin dall’inizio.
Occorrono delle altre ore perché le articolazioni si distendano e divengano flessibili, perché i muscoli si rafforzino e prendano a funzionare gli organi del labirinto che mantengono l’equilibrio, perché insomma l’ochetta appena nata incominci ad avere il senso del sopra e del sotto e possa liberamente ergere il suo capo.
Quella cosina fradicia che fa capolino dal guscio è incredibilmente brutta e penosa, e soprattutto sembra più fradicia di quel che non sia in realtà: a toccarla, la si sente solo un po’ umidiccia.
Questa impressione di bagnato e di appiccicoso che dà il povero abituccio di piume dipende dal fatto che ogni piuma è ancora strettamente racchiusa in un sottilissimo involucro, e così compressa non è più grossa di un capello; tutti questi capelli-piume sono tenuti appiccicati in mazzetti di liquido albuminoso contenuto nell’uovo, e occupano così pochissimo spazio all’interno del guscio.
La mia prima ochetta selvatica era dunque venuta al mondo, e io attendevo che, sotto il termoforo che sostituiva il tiepido ventre materno, divenisse abbastanza robusta per poter ergere il capo e muovere alcuni passetti.
La testolina inclinata, essa mi guardava con i suoi grossi occhi scuri; o meglio, con un solo occhio, perché, come la maggior parte degli uccelli , anche l’oca selvatica si serve di un solo occhio quando vuole ottenere una visione molto netta.
A lungo, molto a lungo mi fissò l’ochetta, e quando io feci un movimento e pronunciai una parolina, quel minuscolo essere improvvisamente allentò la tensione e mi salutò : con il collo ben teso e la nuca appiattita, pronunciò rapidamente il verso con cui le oche selvatiche esprimono i loro stati d’animo, e che nei piccoli suona come un tenero, fervido pigolio.
Il suo saluto era identico, preciso identico a quello di un’oca selvatica adulta, identico al saluto che essa avrebbe pronunciato migliaia e migliaia di volte nel corso della vita; ed era come se anche lei mi avesse già salutato migliaia e migliaia di volte nello stesso identico modo.
La mia intenzione era di affidare, una volta che fossero usciti dall’uovo, anche i piccoli covati dalla tacchina alla summenzionata oca domestica, che, pur non potendo covare più di dieci uova, era certamente in grado di guidare venti giovani ochette.
Quando la mia piccola fu “pronta”, ne erano appena uscite altre tre dalle uova covate dall’oca. Portai l’uccellino in giardino, dove la grassa biancona se ne stava nella cuccia del cane, dopo averne cacciato senza alcun riguardo il legittimo proprietario, Wolf primo. Infilai la mano sotto il ventre tiepido e morbido della vecchia e vi sistemai ben bene la piccina, convinto di aver assolto il mio compito. E invece mi restava ancora molto da imparare.
Trascorsero pochi minuti, durante i quali meditavo soddisfatto davanti al nido dell’oca, quando risuonò da sotto la biancona un flebile pigolio interrogativo: “ vivi-vivivi ? “.
In tono pratico e tranquillizzante la vecchia oca rispose con lo stesso verso, solo espresso nella sua tonalità: “ gangangangang “.
Ma invece di tranquillizzarsi come avrebbe fatto ogni ochetta ragionevole, la mia rapidamente sbucò fuori da sotto le tiepide piume, guardò su con un solo occhio versp il viso della madre adottiva e poi si allontanò singhiozzando: “fip… fip… Fip“. Così pressappoco suona il lamento delle ochette abbandonate: tutti i piccoli uccelli fuggiti dal nido possiedono, in una forma o nell’altra, un lamento di questo genere. La povera piccina se ne stava lì tutta tesa, continuando a lamentarsi ad alta voce, a metà strada fra me e l’oca.
Allora io feci un lieve movimento e subito il pianto si placò: la piccola mi venne incontro col collo proteso, salutandomi con il più fervido: “ vivivivivivi “. Era proprio commovente, ma io non avevo intenzione di fungere ma madre oca.
Presi dunque la piccola, la ficcai nuovamente sotto il ventre della vecchia e me ne andai. Non avevo fatto dieci passi che udii dietro di me : fip… fip… fip…“: la poveretta mi correva dietro disperatamente. Non riusciva ancora a star ferma in piedi, aveva il passo ancora molto insicuro e vacillante. Però, sotto la pressione del bisogno, possedeva già l’andatura rapida e impetuosa della corsa.
Avrebbe commosso un sasso la povera piccina, con quel modo di corrermi dietro piangendo con la sua vocina rotta dai singhiozzi, incespicando e rotolando, eppure con velocità sorprendente e con una decisione dal significato inequivocabile: ero io sua madre, non la bianca oca domestica ! Sospirando mi presi la mia piccola croce e la riportai in casa. Pesava allora non più di cento grammi, ma sapevo benissimo come mi sarebbe stata greve, quanta dura fatica e quanto tempo mi sarebbe costato portarla degnamente.
Mi comportai come se fossi stato io ad adottare l’ochetta, non lei me, e la piccola fu solennemente battezzata col nome di Martina.
Passai il resto della giornata proprio come suole passarlo un’oca madre. Ci recammo su un prato tenero e fresco e riuscii a convincere la mia piccina che l’uovo tritano assieme alle ortiche era una pappa prelibata. E, dal canto suo, essa riuscì a convincermi che, almeno per il momento, era assolutamente escluso che io mi potessi allontanare da lei e abbandonarla anche per un solo minuto: cadeva subito in un’angoscia tanto disperata e il suo pianto era tanto straziante che dopo qualche tentativo mi diedi per vinto e costruii un cestino per potermela portare sempre dietro, in spalla, in modo che, almeno quando dormiva, io potessi muovermi liberamente.
Non dormiva mai molto a lungo, e in quella prima giornata non vi feci gran caso. Ma durante la notte me ne dovetti ben accorgere ! Avevo preparato per la mia ochetta una magnifica culla riscaldata elettricamente, che aveva già sostituito il caldo ventre materno per molti piccoli da me allevati.
Quando, a sera abbastanza inoltrata, misi la mia piccola Martina sotto la coperta termostatica, essa emise subito soddisfatta quel pigolio rapido che presso le giovani oche esprime la voglia di dormire e che suona pressappoco come un “ virrrr “.
Posi la cestina con la culla riscaldata in un angolo della camera e mi infilai anch’io sotto le coperte.
Proprio nell’attimo in cui stavo per addormentarmi udii Martina emettere, già tutta assonnata, ancora un sommesso “ virrrr “. Io non mi mossi, ma poco dopo risuonò più forte, come in tono interrogativo quel richiamo “ virrrr “ che significava come “Io sono qui, tu dove sei ?”. “ Vivivivi ? “.
Io continuai a non rispondere, rannicchiandomi sempre più tra le coltri, e sperando intensamente che la piccola si sarebbe addormentata. Macchè ! Ecco di nuovo il suo “ vivivivivi “ , ma ora con una minacciosa componente tratta dal lamento dell’abbandono: un “io sino qui, tu dove sei ?” pronunciato con il viso atteggiato al pianto, con gli angoli della bocca abbassati e il labbro inferiore voltato in fuori; cioè, presso le oche, con il collo tutto ritto e le piume del capo arruffate. E un istante dopo ecco lo scoppio di striduli e insistenti “fip… Fip…”.
Dovetti uscire dal letto e affacciarmi sul cestino; Martina mi accolse beata salutandomi con un “ vivivivivi “. Non voleva più smettere, tanto era il sollievo di non sentirsi più sola nella notte. La posi dolcemente sotto la coperta termostatica: “ virrrr, virrrr “. Si addormentò subito, deliberatamente, e io feci lo stesso.
Ma non era passata neppure un’ora (erano circa le dieci e mezzo), quando di nuovo risuonò il “ vivivivivi “ interrogativo, e si ripeté esattamente la sequenza di cui sopra. E poi di nuovo alle dodici meno un quarto, e all’una.
Alle tre meno un quarto mi levai e decisi di cambiare radicalmente la disposizione degli elementi dell’esperimento. Presi la culla e me la posi a portata di mano presso la testata del letto. Quando, secondo le previsioni, alle tre e mezzo si fece sentire il solito interrogativo “io sono qui , tu dove sei ?” io risposi nel mio stentato linguaggio di oca selvatica con un “gangagangang” e diedi qualche colpetto alla coperta termostatica. “Virrrr” rispose Martina “io sto già dormendo, buonanotte”.
Presto imparai a dire “gangagangang” senza neppur svegliarmi, e credo che ancor oggi risponderei così se, nel profondo del sonno, udissi qualcuno sussurrarmi sommessamente “vivivivivi ?”.
Però all’alba, quando si fece chiaro , non mi servì più a nulla dire “gangangang” e dare colpetti alla coperta: Martina, con la luce del giorno, si accorse che il cuscino non era me e cominciò a piangere perché voleva venire proprio da me.
Che cosa si fa quando il nostro grazioso, adorato fantolino si mette a strillare alla quattro e mezza di mattina ?
Bé, non c’era altro che tirarlo su e prenderlo in letto, rivolgendo al cielo una sommessa preghiera perché l’angioletto se ne stia tranquillo almeno un altro quarto d’ora. Ed egli lo fa, e voi vi riaddormentate voluttuosamente finché, sì finché non sentite al vostro fianco qualcosa di umidiccio.
Questi inconvenienti non si verificarono mai con la mia piccola Martina: finché un’ochetta è nello stato d’animo di starsene acquattata sotto la mamma, si può stare sicuri che si manterrà pulita.
Nel complesso Martina era una bambina molto buona. Non dipendeva da una su ostinazione il fatto che non riuscisse a star sola neppure un minuto; bisogna pensare che per un giovane uccello della sua specie, che vive normalmente allo stato selvaggio, il perdere la madre e i fratelli significa una morte sicura.
E dal punto di vista biologico è assai significativo che quelle pecorelle smarrite non pensano più a mangiare, né a bere, né a dormire e, fino all’esaurimento totale, investono ogni scintilla di energia in quei gridi di aiuto grazie ai quali sperano di ritrovare la madre.
Se si possiedono parecchie giovani oche selvatiche relativamente affiatate fra loro, si riesce con un po’ di severità ad abituarle a star sole. Invece un animale isolato piangerebbe letteralmente fino a morirne.
Questa profonda avversione istintiva per la solitudine produsse in Martina un enorme attaccamento alla mia persona: mi seguiva dappertutto, ed era pienamente felice quando io lavoravo alla scrivania e lei poteva starsene sotto la mia sedia. Non mi importunava affatto, e le bastava che io le rispondessi con u grugnito inarticolato ogni volta che mi chiedeva nel solito modo se io ero ancora vivo e presente.
Di giorno lo faceva ogni due minuti, di notte circa una volta all’ora. Vorrei conoscere la persona, o meglio non vorrei conoscere la persona che non rimarrebbe incantata e commossa da un simile attaccamento da parte di un’ochetta; di questo vivace batuffolo di piume che vi cammina dietro pieno di quella buffa dignità comune a tutte le oche, e che, se andate troppo in fretta, si sforza di rincorrervi con le alucce spiegate. Ed è commovente, se anche esasperante, come lo “ueh, ueh “ dei nostri lattanti, il lamentoso canto di abbandono che subito intona se uscite dalla stanza anche per un solo minuto; e ancor più toccate, e per nulla esasperante, è la gioia eccitata con cui vi accoglie quando ricomparite, il suo saluto giubilante che sembra non voler più finire.
Ma la cosa più bella è che questo tenero attaccamento della piccola oca ci permette di stabilire uno stretto legame con un animale selvatico non addomesticato, e di osservarlo all’aperto, liberamente, in un ambiente tutto naturale.
NON COMPRATE FRINGUELLI !
Pochi sanno quali sono gli animali che possono allevare in casa facilmente e con soddisfazione. Molti amici della natura continuano a prendersi in casa nuovi animali e sempre di nuovo falliscono nel tentativo di tenerli, o perché non si servono di metodi adeguati o perché non scelgono bene l’animale. E purtroppo la maggior parte dei nostri commercianti di animali non sa valutare correttamente il compratore e non lo consiglia bene nella scelta.
Prima di tutto bisogna avere le idee chiare su di un punto: in generale si è indotti a prendere in casa un animale da quell’antichissima nostalgia che spinge l’uomo civilizzato verso il paradiso perduto della natura allo stato selvaggio. Ora è vero che ogni animale costituisce un pezzetto di natura, ma non ogni animale è adatto a rappresentare la natura in casa vostra.
Gli animali che non dovete comprare si possono distinguere in due grandi categorie: quelli che non potrebbero vivere con voi, e quelli con i quali voi non potreste vivere. Al primo gruppo appartengono tutti gli animali molto sensibili, difficili da curare e da mantenere in buona salute; al secondo gruppo appartengono moltissimi altri animali che combinano guai.
Se i vostri occhi anelano soltanto ad una piccola chiazza di rigogliosa verzura naturale e alla bellezza delle creature viventi, comprate un acquario; se volete animare piacevolmente la vostra abitazione compratevi degli uccellini. Se invece siete un solitario che desidera un contatto personale, se volete avere in casa qualcuno che si rallegri quando rientrate, allora procuratevi un cane.
Non crediate che sia crudele tenere un cane in un appartamento cittadino: la sua felicità dipende soprattutto dal tempo che potete trascorrere con lui, dal numero di volte che vi può accompagnare nelle vostre uscite; al cane non importa nulla aspettare per ore ed ore davanti alla porta del vostro studio, se poi ne avrà in premio dieci minuti di passeggiata al vostro fianco. Per il cane l’amicizia personale è tutto.
Ricordate però che in questo modo vi assumete un impegno tutt’altro che lieve, perché dopo è impossibile rompere l’amicizia con un cane fedele, e darlo via equivale a un omicidio. E, se siete una persona molto sensibile, tenete anche presente che il vostro amico ha la vita assai più corta di voi, e dopo dieci o quindici anni ci sarà inevitabilmente un triste distacco.