CASA CULTURALE DI SAN MINIATO BASSO
SEZIONE SOCI COOP DEL VALDARNO INFERIORE
WWW. CASACULTURALE – (Sezione lettura)
DICEMBRE 2012
GINO BARTALI
La vita del grande campione dai libri di
Leo TURRINI e del figlio Andrea BARTALI
UN ALLEGRO RAGAZZO DI CAMPAGNA NELLA VICINA FIRENZE
Gino Bartali era un ragazzo non attratto dalla scuola ed ai libri preferiva i divertimenti all’aria aperta. Da buon toscano non gli mancava l’allegria e le sfide fra coetanei esercitavano su di lui un fascino irresistibile.
A cinque anni dichiarò di essere capace di resistere un’ora sommerso nelle neve. Gli amici lo presero in parola: quando lo estrassero, Gino era quasi assiderato. La bravata ebbe una conseguenza permanente: la voce gli si arrochì, diventò una specie di grattugia e rese inconfondibile il suo modo di esprimersi.
La prima corsa che fece naturalmente la vinse, ma era una corsa a piedi: sul traguardo si ritrovò a pensare che se le gambe erano buone potevano tornare utili pure in sella ad una bicicletta.
La bicicletta era quasi un sogno proibito nell’Italia del primo fascismo ma papà Torello comprese il grande desiderio del figlio e trovò la maniera di regalargli un ferrovecchio, una bici usata, con i pedali che ciondolavano. Andava bene lo stesso.
Gino, abbandonata la scuola senza rimpianti al compimento di tredici anni, aveva il ciclismo nel cuore e nella testa. Unendo l’utile al dilettevole il ragazzo si offrì come apprendista meccanico nella bottega artigiana di Oscar Casamonti.
Lì, fra ruote e manubri, ascoltava con attenzione i discorsi dei ragazzi più grandi e nella sua fantasia i personaggi come Bottecchia, Girardengo e Binda; il racconto delle loro prodezze non era poi tanto diverso dalle favole dei Tre moschettieri, solo che al posto di cappa e spada c’era la bicicletta.
LA VERIFICA DI OSCAR CASAMONTI
Oscar diceva spesso a Bartali che il ciclismo era il vero sport dei proletari, perché in bicicletta c’è la vera giustizia. Chi è più bravo, arriva primo.
Gino aveva trasformato in competizione ogni viaggio dalla casa di Ponte a Ema fino alla bottega di Casamonti. Chiunque incontrasse lungo la strada era un avversario. Gli atleti in allenamento si seccavano spesso della presenza del ragazzo alla loro ruota e gli davano battaglia per levarselo di torno, ma, nonostante le loro biciclette perfettissime, quasi sempre non ci riuscivano.
“Vieni con me” disse un pomeriggio d’estate Casamonti a Gino.
Lui prese per sé una fiammante bicicletta da corsa mentre Bartali saliva sul solito suo ferrovecchio.
Dopo una serie di ripetuti scatti, Oscar girò la testa. Gino era lì, a un metro, fresco e tranquillo in sella ad una bicicletta che nemmeno meritava di essere chiamata così.
Solo per una forma di rispetto nei confronti del datore di lavoro il diciassettenne Bartali aveva evitato di andarsene in fuga.
Oscar fece allora al ragazzo una richiesta. “Mi hanno detto che in salita vai avanti anche senza tenere le mani sul manubrio” sussurrò. “Li vedi quei due tornanti là davanti ? Dimostrami che è vero.”
Era vero. Allora Casamonti mise piede a terra. Offrì la sua bici a Gino. “A casa ci torni con questa” , disse al ragazzo. “Te la meriti. E io devo venire a parlare con tuo padre: non possiamo perdere tempo, ci sono troppe corse da vincere”.
TORELLO PERPLESSO ED INDECISO
Torello conosceva bene Casamonti. Si fidava della sua parola. Ma non era persuaso. Il ciclismo era una disciplina pericolosa. Qualche anno prima Ottavio Bottecchia, il dominatore del Tour, era stato ritrovato morto sul ciglio della strada.
Ma nelle ripetute discussioni dei due uomini si introdusse una volta il fratello minore, Giulio, il quale disse risolutamente: “Babbo, domani c’è una corsa qui vicino. A Rovezzano” mormorò. “Se non lasci andare lui, mi iscrivo io. Perché ho la sua stessa passione. E tu lo sai”.
Fu la frase decisiva. Torello era stato messo in minoranza !
TROPPE VOLTE CAPITO’ CHE ARRIVASSE SECONDO
In paese era attiva la Società sportiva Aquila. Tutti si strinsero accanto al campioncino e il macellaio teneva da parte per Bartali la carne migliore.
L’entusiasmo popolare era ripagato dai risultati ! Nel 1932 Gino vinse il campionato toscano e vinse tante altre corse ma stranamente se arrivavano in due era sempre secondo !
“In gruppo c’erano molti ragazzi per i quali vincere una corsa significava tanto” raccontò una volta Gino. “Di solito al primo classificato di una corsa spettavano cinquanta lire, mentre il secondo ne intascava trenta. Io allora cercavo di andare in fuga con un altro collega. Quando si restava soli, intavolavo la trattativa. Ero disposto a perdere in cambio del premio. Per me era fondamentale arrivare a casa con ottanta lire: cinquanta più trenta, come se fossi arrivato contemporaneamente primo e secondo. Così la sera a casa il papà mugugnava meno”.
Quando si piazzò secondo per la ventesima volta su quarantacinque gare, Berlincioni, il dirigente della Società sportiva Aquila, mangiò la foglia. Decise di intervenire. Non era il caso di rimproverare il ragazzo: la miseria era una cosa brutta per tutti. “Gino” disse allora rivolta al ragazzo “dalla prossima domenica per te il premio è doppio: ai soldi messi in palio dagli organizzatori si aggiungeranno le mie lire”.
UN NASO TRISTE DA ITALIANO ALLEGRO
Il 24 maggio del 1934 Gino Bartali acquisì la sua fisionomia definitiva, quella che lo avrebbe reso presto popolare tra milioni di compatrioti.
Il naso, Gino se lo fracassò a Grosseto , sul traguardo della Coppa Vecchioni. Sul rettilineo finale la volata rusticana con il pratese Bini sfociò nel dramma: Gino fu involontariamente urtato da un altro ciclista di Prato, Balli, e il capitombolo che ne seguì fu pauroso.
Allora la chirurgia plastica non esisteva: Bartali si tenne il suo nuovo naso con un “look” particolare e poté considerarsi fortunato perché la funzioni respiratorie non vennero compromesse.
Nonostante la disavventura di Grosseto in quell’anno vinse sedici corse e si laureò anche campione regionale della Toscana.
NEL 1935 IL GRAN SALTO NEI PROFESIONISTI
Alla partenza della sua prima Milano-Sanremo Binda e Guerra restarono colpiti più che altro dalle dimensioni del suo naso. Ci scherzarono anche sopra.
Soffiava un ventaccio e il cielo minacciava un diluvio. Gino aveva trascorso la notte in piedi: non potendo contare sull’assistenza di un gruppo organizzato, aveva tirato l’alba per installare sulla sua bicicletta un nuovo cambio di velocità.
Per non sbagliare, nei primi chilometri si incollò alla ruota di Binda.
Però Binda non aveva voglia di ammalarsi sotto l’acqua, presto diventata neve. Età e conto in banca gli garantivano un placido ritiro; con gesto regale alzò il braccio davanti alla salita del Turchino e si fece da parte.
Come in un film si ritrovò in scia a Guerra.
Scampato a una caduta, il generoso Learco Guerra era lanciato in una improbabile rimonta. Chiese l’aiuto di Gino: “Alè, nasone, fammi vedere quello che sai fare, su, andiamo a prendere quelli che ci stanno davanti”.
Forse fu la consapevolezza di avere a portata di mano il sogno di una vita a dargli la carica. Di colpo cancellò la fatica e osò l’inosabile.
Ricordava Bartali in un suo scritto: “Scappai. Sulla salita di Capo Mele mi tolsi Guerra dalla ruota. Nella mia testa di pivello, in quei momenti indescrivibili, mulinava di tutto. Ero solo. Ero in fuga nella Milano-Sanremo. Provavo una emozione violentissima. Ma ero eccitato. Non avrei permesso alla stanchezza di fermarmi.”
Lo fermarono invece. Lo fermarono con un trucco abusando del suo punto debole: la sua lingua lunga !
L’astuto Emilio Colombo, il direttore della “Gazzetta dello Sport” , si avvicinò con la macchina al fuggiasco.
Al non ancora ventenne Bartali venne chiesto di raccontare l’intera vita. Poteva l’anonimo giovanotto resistere a tanta tentazione ?
Pedalando e chiacchierando, chiacchierando e pedalando, Gino appagò la curiosità dell’interlocutore e andò a finire che lo ripresero.
Ma il quarto posto e il premio della combattività fruttò a Bartali una bella sommetta. Aveva staccato Guerra, la “locomotiva umana”.
Learco, sul traguardo, andò a fargli i complimenti : “Tu di grande non hai solo il naso, ragazzo”.
La sera stessa i dirigenti della “Frejus” gli sottoposero il primo contratto da professionista: avrebbe corso il Giro d’Italia come gregario.
IL PRIMO GIRO D’ITALIA
Nel giro si laureò re della montagna e nella classifica generale occupò la settima posizione.
Learco Guerra, dopo 3567 chilometri di sudore e di dolore, non aveva più dubbi: “Nasone” gli disse nella serata finale a Milano “uno come te deve venire alla Legnano : avrai una squadra tutta per te e io ti farò da suggeritore, te lo meriti”.
Una sera aveva una cartina d’Italia sul tavolo di cucina con indicazione della prossima corsa nazionale quando alla porta si presentò una delegazione di fascisti fiorentini.
Ufficialmente erano venuti per gli auguri dicendogli che era il rappresentante della terra toscana ma prima del congedo Gino si sentì formulare una domanda a bruciapelo: “Che cosa aspetti a iscriverti al partito ?”.
La tessera del PNF, il Partito nazionale fascista, lui non l’aveva mai voluta. E non la volle nemmeno quella volta.
In maglia rosa, assoluto padrone del gruppo, protetto dall’amicizia di Guerra, la sua vittoria non fu mai in discussione. Suo anche il premio riservato al miglior scalatore.
A conclusione della corsa rosa Mussolini ricevette Gino a Palazzo Venezia.
Non aveva la camicia nera, anzi, sul bavero della giacca aveva, in bella mostra, il distintivo dell’Azione Cattolica che mantenne per tutta la vita.
Primo Carnera, il pugile friulano diventato campione del mondo dei pesi massimi che era con lui alla cerimonia; si era presentato all’incontro rispettando in pieno l’etichetta di regime.
ADRIANA, IL NOME DELLA ROSA
Era un ragazzo pulito dentro e fuori. Nella sua semplicità contadina aveva una sana concezione della vita.
L’unico vizio al quale non sapeva resistere era la sigaretta: al mattino ne accendeva sempre una, una sola, certo che al suo cuore speciale il fumo non provocava danni ; anzi, la “bionda” gli serviva per portare alla normalità il battito cardiaco.
Si era intanto però innamorato anche di una bionda in carne ed ossa.
Lei non lo sapeva, perché Gino aveva un pudore estremo dei sentimenti.
Aveva notato Adriana Bani capitando per caso in un negozio nel centro di Firenze: lei aveva i capelli color grano, era minuta e illuminava chi le stava di fronte con due occhioni azzurri.
Era ricapitato qualche altra volta nel negozio dove Adriana lavorava, ma si capiva benissimo che non era lì per un acquisto e lei lo aveva capito benissimo. Solo che Gino era paralizzato dall’emozione. Era tanto aggressivo in bicicletta quanto impacciato nell’approccio alla donna che sentiva di amare.
“Una sera però”, raccontò all’amico Marcello Lazzerini “mi feci coraggio e quando uscì le chiesi se potevo accompagnarla. Per un centinaio di metri non riuscii a spiccicar parola. Silenzio assoluto. A un certo punto fu proprio lei che, fingendosi spazientita, mi disse: “ma non dovevi dirmi qualcosa ?” . L’accompagnai fino al tram e poi fino a casa a San Gervasio. Lì, davanti al suo portone, trovai il coraggio di dichiararle il mio amore”.
LA TRAGEDIA DI GIULIO
Adriana diventò subito, per Gino, la persona più importante della sua vita.
Bella, educata, sobria. Amava l’uomo e non il fuoriclasse.
Aveva la classe di una principessa da favola e non fece mai pesare al compagno assenze e sofferenze di una vita da campione.
Furono anche le sue parole a spingere Gino oltre il muro della disperazione quando, davanti al cadavere del fratello Giulio, fu sul punto di rinunciare alla cosa che sapeva fare meglio, al mestiere di ciclista.
Il 14 giugno del 1936 il fratello Giulio era andato a correre la Targa Chiari e nella discesa del San Donato, mentre pioveva ed il terreno era viscido, un’automobile che stava salendo e non si era fermata, nonostante gli avvertimenti usuali, si parò innanzi ai corridori.
Due ciclisti riuscirono a passare ma Giulio, che era terzo in fila indiana, fu investito dalla vettura e morì all’istante.
Furono gli incoraggiamenti di Adriana a dargli forza.
Se aveva paura, la nascose.
Spese parole che venivano dal cuore: “Lui amava la bicicletta come te: pedala anche per lui, ti sentirai più forte”.
IL SECONDO GIRO D’ITALIA
Il giro del 1937 era iniziato male perché Bartali si era procurato una bella broncopolmonite durante un allenamento che lo costrinse per molti giorni ad un riposo assoluto.
Iniziò il giro ancora debole ma sapeva che se fosse riuscito a superare indenne le tappe iniziali, avrebbe sistemato le cose in montagna.
Quando vide davanti a se i tornanti del Rolle il toscanaccio capì che la partita era chiusa e aveva un vincitore, lui , che non si voltò mai indietro a vedere dove aveva seminato gli altri corridori.
Vinse con oltre otto minuti su Valetti secondo e vinse anche il premio della montagna.
OBBLIGATO A CORRERE IN FRANCIA
Gino aveva escluso il Tour di Francia dai suoi programmi prima ancora di incappare nella bronco-polmonite di primavera.
A maggior ragione gli sembrava assurdo pensare alla maglia gialla dopo la malattia e il faticoso recupero.
Non voleva assolutamente mettere di nuovo a rischio con il Tour le sue condizioni di salute: il fisico aveva reagito bene alla fatica del Giro ma, adesso, necessitava di un periodo di recupero e non si sentiva ancora in grado di affrontare degnamente una gara dura come quella nazionale in terra di Francia.
I dirigenti della Federazione Italiana Fascista del ciclismo andarono però a trovarlo a casa recapitando il telegramma di Achille Starace. “Il Ministro ordinava la mia partecipazione al Tour, minacciando provvedimenti in caso di insubordinazione. Non avevo scelta” raccontò poi ai giornalisti.
Arrivato dopo le prime tappe al Galibier Gino impose la sua forza e conquistò la maglia gialla.
La corsa aveva trovato il suo sicuro dominatore.
La sua maglia purtroppo si scolorò il giorno dopo nelle acque gelide del torrente Colau.
Il corridore Giulio Rossi cadde davanti a Bartali in una curva e lui per non investirlo fu sbalzato di sella e finì oltre la spalletta del fiume. Si salvò, tenendo ben stretta la bicicletta, aggrappandosi ad una rete metallica che teneva insieme due blocchi di pietra.
Squassato da tremiti violentissimi, il campione era sull’orlo di un collasso, ma risalì invece in bicicletta e pur perdendo molti minuti conservò la maglia gialla.
I giorni successivi anche battendosi come un leone perse vari minuti e il Tour sembrava segnato. Almeno così immaginavano gli esperti. Ma non così la pensava lui. Era conscio di avere nelle gambe una potenza che i rivali non potevano contrastare. Per lui, la partita era ancora aperta.
Non così vedeva la cosa la propaganda fascista che non poteva tollerare una sconfitta sul suolo francese.
Meglio, molto meglio, secondo loro e Mussolini , un Gino Bartali ritirato, vittima della sfortuna che un perdente.
Maturò così nelle stanze del regime una decisione clamorosa: al campione più amato dagli italiani fu imposto l’addio al Tour !
L’angoscia di quella decisione non fu stemperata dallo scorrere dei decenni.
Ancora molto, molto tempo dopo, così Gino rievocava il suo stato d’animo: “Minacciarono anche di ritirarmi il passaporto se non avessi accettato le decisioni imposte dall’alto. Me ne dovetti tornare a casa, in treno, senza neanche il rimborso delle spese di viaggio. Mi hanno rispedito in Italia quando ero già guarito. E’ la più grossa ingiustizia subita durante la mia carriera.”
1938
Le incomprensioni con i Dirigenti Federali, che incarnavano la volontà dei gerarchi fascisti, si acuivano sempre di più.
Il Tour era l’obiettivo assoluto per loro, meglio sarebbe stato per Gino dedicare l’intera stagione alla caccia della maglia gialla.
Tradotto in soldoni : “Niente Giro d’Italia per Bartali . Per risparmiare energie”.
Ancora una volta Gino si sentì schiacciato da un potere che pretendeva di interferire persino nelle sue scelte sportiva. “La verità” borbottava Gino davanti ad un bicchiere di vino rosso ” è che a loro non interessa il Tour di Bartali . Piuttosto vogliono impedirmi di eguagliare il record fi Binda. Io potrei benissimo, come Alfredo, vincere per tre volte di seguito il Giro d’Italia. Ma sono troppo popolare e non porto la camicia nera. Dò fastidio a qualcuno”.
Bartali pose però una condizione irrinunciabile: al Tour ci sarebbe andato con una squadra di assoluto gradimento. E al timone della nazionale italiana doveva esserci un uomo di grande carisma, capace di resistere, in caso di necessità, alle pressioni del potere politico.
Costante Girardengo era l’uomo ideale per l’incarico.
Leggenda del ciclismo degli anni venti, ai suoi tempi si era guadagnato l’etichetta di “campionissimo”.
Al Parco dei Principi a Parigi Bartali arrivò dopo aver inflitto un distacco di diciotto minuti al secondo arrivato e aggiudicandosi anche la graduatoria del Gran Premio della montagna.
Il giorno dopo, sulla “Gazzetta dello Sport” apparve una pagina pubblicitaria a lui dedicata. Lo slogan era questo: “Un comandamento dell’Italia del Duce: vincere. Bartali, campione della Legnano, ha obbedito”.
Il regime si impossessava dell’impresa !
Il Duce ospitò a Palazzo Venezia il CT Pozzo, Meazza, Piola e gli altri giocatori che avevano conquistato la Coppa Rimet.
Ma nell’agenda del capo del governo non ci fu spazio per un incontro con Gino, il ciclista che tredici anni dopo Bottecchia aveva riportato la maglia gialla in Italia.
Non solo : gli fu negata la medaglia d’oro al merito sportivo. Gli diedero una medaglia vermeil – bronzo dorato – che veniva usata nelle premiazioni di gare minori. Vista la bassissima considerazione in cui l’aveva tenuto il regime, non appena arrivato a Firenze, Bartali quella medaglietta dorata la gettò nell’Arno.
C’era una spiegazione sul trattamento usato verso il campione. Anche al Parco di Principi, nel giorno del trionfo, Bartali non si era esibito nel saluto romano.
“Dai Gino che questa volta ce la fai”
Nell’anno 1939 il giornalista Emilio Colombo gli gridò questa frase ad Albenga, nella Milano-Sanremo, quando era in fuga.
“Questa volta rallento io – rispose con ironia – perché voglio aspettare gli inseguitori, non voglio correre rischi”.
Si fece raggiungere e li batté in volata !
Al giro arrivò secondo dietro Valetti che fece tremare fin sotto lo striscione del traguardo a Milano. Gino diede fuoco alle polveri anche nell’ultima tappa, andò in fuga sul Ghisallo involandosi in una fuga spettacolare. Perse il giro con un distacco di due minuti.
Così raccontò Bartali l’episodio che determinò la sua sconfitta in questo giro: “Nella penultima tappa da Trento a Sondrio forai e dovetti aspettare otto minuti l’arrivo della macchina. Nel frattempo Valetti era scappato. Forò anche lui , ma il meccanico Pinella giocò d’astuzia : il regolamento stabiliva che si poteva cambiare la ruota fra compagni di squadra, se questa si rompeva. Per non perdere tempo a sostituire il tubolare, lui ruppe la ruota di Valetti e la sostituì con quella di Bizzi, ormai tagliato fuori dal successo finale. Al traguardo Valetti giunse primo con il vantaggio dato dalle diverse modalità che si erano avute nelle nostre forature”.
QUANDO VIDE PER LA PRIMA VOLTA FAUSTO COPPI
Si correva ad Arezzo la Coppa del Casentino per dilettanti.
Bartali in attesa della gara stava partecipando ad un circuito paesano.
Uno degli organizzatori si avvicinò a Gino dicendogli di fare attenzione a un certo Primo Volpi che prometteva di essere un futuro campione.
Quando Gino avvicinò il vincitore della gara dei dilettanti si complimentò con lui dicendo: “Bravo Volpi, hai fatto una bella gara”. “Non sono Volpi, sono Coppi Fausto e vengo da Castellaneta. Volpi ha forato ed è rimasto indietro”.
L’anno successivo il direttore sportivo Eberardo Pavesi decise, Bartali consenziente, di portare Coppi nella Legnano e nel 1940 Bartali e Coppi corsero insieme, nella stessa squadra.
Iniziò così la storia di due ciclisti che entrarono nella leggenda della sport infiammando i cuori di milioni di tifosi.
1940
Questo anno fu ricco di storie particolarmente tristi.
Il 10 giugno Mussolini rompe gli indugi e getta l’Italia nella fornace della guerra.
A bordo della nave Paganini affondata mentre si recava in Albania c’era il fratello di Adriana, Giorgio, gran tifoso del fidanzato della sorella.
Bartali vince la Milano-Sanremo e al giro d’Italia dove Gino e Fausto correvano nella medesima squadra si comporta in modo fraterno con Coppi che aiuta rinfrancandolo in occasione di uno dei suoi momenti di crisi.
Il giro fu vinto da Coppi con una sua cavalcata sulle dolomiti che rimane nella storia. Bartali vinse due tappe e il GPM.
Bartali vincerà inoltre in questo anno il Giro della Campania, quello della Lombardia e si confermerà Campione d’Italia.
Quando fu richiamato alle armi volle sposare la sua adorata Adriana, non ancora maggiorenne, la quale era solita dire “meglio una vedova che una fidanzata sola”.
Fu un atto di amore meraviglioso !
Sembrava una pazzia. Mettere su famiglia nel mezzo di una guerra, con la prospettiva nemmeno tanto remota di essere spedito al fronte, in Africa o chissà dove. “Ma lei aveva bisogno di me “ ricorderà Bartali. “Del mio aiuto, della mia presenza. E anch’io avevo bisogno di lei, non sopportavo più di sentirmi solo davanti alle insidie di un futuro sempre più incerto”.
GLI ANNI DELLA GUERRA : 1941-1942-1943-1944-1945
In questo lunghissimo periodo di tempo, nel pieno della sua giovinezza, Bartali fece solo poche corse di poca importanza.
Questo grande atleta fu penalizzato in modo incredibile dal secondo conflitto mondiale !
Di bello c’era per lui solo l’amore di Adriana.
La nascita del primogenito Andrea nel 1941 fu un raggio di luce nelle tenebre.
IL GREGARIO DEGLI EBREI
Placido Giuseppe Nicolini era vescovo di Assisi. Quando venne il momento di organizzare la fuga e la salvezza di centinaia di ebrei il Monsignore si ricordò dell’amico Bartali che era soldato sotto il comando del maggiore Selmi il quale lo aveva assegnato a portare ordini in bicicletta per permettergli di continuare ad allenarsi.
Quando Nicolini gli chiese di prestare la sua faccia e le sue pedalate all’operazione messa in piedi dallo stesso, da Giorgio Nissim di Pisa, un ragioniere ebreo abilissimo falsificatore di documenti e dal Cardinale Elia della Costa, Gino Bartali disse subito di si.
Su suggerimento dello stesso prelato accettò di indossare, per la prima volta, la camicia nera. Non per un ripensamento e nemmeno per un cedimento improvviso alle pretese del potere fascista.
La camicia nera era il suo lasciapassare per Assisi e per Roma !
Nella città di San Francesco e in Vaticano c’era chi attendeva con ansia l’arrivo del campione: perché Gino portava regolarmente con sé documenti preziosi.
False carte d’identità che sarebbero servite a molte famiglie ebree. Dalle sue pedalate e dalla sua astuzia dipendeva la vita di centinaia di persone.
“Tu devi far finta di niente. Ti metti la camicia nera e pedali. Se ti fermano, rispondi che stai come sempre allenandoti, mentre invece vai a consegnare la posta. Ti crederanno”.
Da ricordare infine che il suo nome e la sua fama avevano sottratto ai forni crematori di Dachau una ventina di prigionieri italiani.
Le cose andarono così:
A Dachau uno dei militari tedeschi addetto alla sorveglianza era lontano parente di un ciclista alsaziano. Questo soldato aveva sentito parlare, in famiglia, del corridore italiano che, alla vigilia della guerra, aveva domato le mitiche salite del Tour de France.
Un giorno Antonio Davitti, toscano di Reggello, stava conversando con i colleghi di sventura. Davitti era stato deportato a Daghau dopo l’8 settembre. Il guardiano gli si avvicinò. “Ti ho sentito parlare” disse il tedesco in un italiano incerto. “Vieni dagli stessi posti del grande Gino Bartali ?” Daviddi era un tifoso del campione e portava sempre con sé una fotografia scattata qualche anno prima. Una istantanea che fissava l’incontro casuale tra i fan e il fuoriclasse. Davitti bluffò : “Guarda qua” rispose al tedesco “ il grande Bartali è un mio caro amico”. Quella foto gli aprì i cancelli del lager. Qualche giorno dopo infatti il sorvegliante prese in disparte il toscano di Reggello e gli disse : “Dammi una lista di veti nomi, io tirerò fuori da questo inferno te e i tuoi compagni. Ma un cambio voglio quella foto. Voglio la foto del grande Bartali”.
Bartali finì anche in prigione perché al Comando della Milizia della strada non accettarono le sua giustificazioni del fatto che aveva abbandonato l’esercito l’8 settembre.
Dopo quella data tutte le domande di congedo erano state cancellate.
Fu una fortuna che fra i custodi del carcere dove fu rinchiuso c’era un capitano che non aveva dimenticato Bartali in maglia gialla e in fuga con la maglia rosa.
Saputo che Gino era uno dei detenuti, lo mandò a chiamare.
Prese per buona la scricchiolante verità del suo idolo. “Vattene a casa” disse il militare indicandogli il cancello . “Garantirò io per te. E quando questo schifo finirà, ricordati di vincere un altro giro di Francia”.
“TU SPORCO FASCISTA”
Sembrava tutto finito. La guerra civile. La paura delle vendette. L’odio tra fratelli. Sembrava tutto finito e Gino aveva voglia di pensare soltanto alla bicicletta.
A Roma, finalmente sottratta alla occupazione nazista, un gruppo di appassionati aveva indetto un circuito per ciclisti professionisti. Gino era stato invitato e pensò che una bella pedalata lo avrebbe aiutato a ritrovare la forma.
Era nei pareggi di Bracciano quando sulla strada sbucarono alcuni giovani armati. Erano partigiani comunisti. Gli puntarono contro il fucile. “Scendi subito dalla bicicletta”. Di solito certi incontri si risolvevano in una chiacchierata e un incitamento non appena qualcuno riconosceva Bartali, il grande campione.
Stavolta andò diversamente.
Quando ormai Gino era pronto a ripartire, un tizio si fece avanti. Alzò il mitra e in modo risoluto gridò : “Tu, sporco fascista non la passi liscia : io vengo da Firenze e ti ho visto girare in camicia nera. Adesso con te saldiamo i conti”.
Presa alla lettera l’accusa era fondata: nei suoi viaggi per Assisi e per Roma, con i documenti falsi per gli ebrei, nascosti nella canna della bicicletta, Bartali indossava davvero la divisa della Milizia.
Vincendo la paura, il campione gridò la sua verità.
Senza troppe illusioni però : tanta gente era stata uccisa alla stessa maniera. Sulla base di un pregiudizio. In nome di una sensazione imprecisa, di una impressione sfocata. O magari per dare sfogo a una rivalsa personale, a una vendetta privata.
Ma la raffica fatale non arrivò.
Tra i partigiani apparsi sulla strada di Bracciano, c’era un giovanotto che veniva dalla zona dell’Amiata. Si chiamava Primo Volpi. Aveva buone informazioni. Placò l’ira del giustiziere con una frase: “Gino non c’entra con i fascisti. Ho le prove di quanto dico. Lasciatelo andare, per l’amor di Dio”.
Bartali non dimenticò mai quei momenti “Quel giorno ho imparato che l’ideologia, quando è cieca, può spingere l’uomo verso qualunque bassezza. Il fanatismo, di qualunque colore sia , distrugge l’umanità”.
La vicenda di Bracciano ebbe una coda.
Rientrato a Firenze, Gino andò a protestare. Non intendeva accettare in silenzio il sopruso. Non gli bastava aver riportato a casa la pelle.
Si presentò nelle stanze di una sezione del rinato Partito Comunista Italiano e si sfogò con un funzionario. Mentre stava parlando a voce alta ed eccitata, sulla porta spuntò un volto noto. Il volto di Mario Alessi.
Alessi era il segretario della sezione.
Abbracciò subito commosso il vecchio amico promettendogli subito che avrebbe individuato il “compagno” che voleva ammazzarlo e lo avrebbe espulso del PCI.
MARIO ALESSI DI PONTE A EMA
Chi era Mario Alessi è presto detto:
A Lione, dove Bartali era andato per disputare un circuito nel 1937 , Gino stava riposando nella sua camera d’albergo quando sentì bussare piano piano alla porta. Andò ad aprire. Si trovò davanti un viso che faticò a riconoscere. “Sono Mario, il Mario Alessi di Ponte a Ema: ti ricordi di me ?”
Si ricordava. Alessi era un conoscente di famiglia. Era un attivista del Partito Comunista. Costretto, come tanti, a lasciare l’Italia di Mussolini.
Gino non lo vedeva da anni: per un attimo pensò che il Mario fosse passato per un semplice saluto tra conterranei, tra un tifoso e un campione, uniti dalle stesse radici.
Ma il motivo era diverso. “Hanno ammazzato i fratelli Rosselli, qui in Francia” sussurrò Alessi. “Io sono il prossimo della lista. Per caso conosci qualcuno che possa nascondermi per un po’ ?“
Gino non perse tempo. Andò a parlare con un cappellano della cattedrale di Lione, un pretino che andava matto per il ciclismo e che conosceva le imprese agonistiche di Bartali. Lo convinse a dare ospitalità a un amico italiano. Senza fare domande. Senza parlarne in giro.
1946 – L’ANNO DOPO LA RINASCITA
Gino al giro del 1946 aveva un vantaggio di quattro minuti su Fausto ma doveva rimontare due altri leader della corsa e in particolare Ortelli.
Restavano da scalare le Dolomiti dopo le sassate che avevano accolto i corridori nella tappa Rovigo-Trieste , quando i comunisti filotitini pretendevano l’annessione di Trieste alla Jugoslavia.
Coppi propose a Bartali, nei corridoi di un hotel, quando mancavano poche ore alla partenza della frazione che avrebbe portato i corridori da Udine ad Auronzo : “Gino, che ne diresti se io in salita ti dessi una mano per staccare Ortelli ? Naturalmente non devi fare il furbo, tu la maglia te la prendi, ma la tappa è mia”.
Bartali si proclamò immediatamente d’accordo ma aggiunse una clausola: “Oh Fausto, a me sta bene, però l’accordo deve valere anche per la tappa che ci porta a Bassano, perché se io faccio fuori Ortelli e poi il giro lo vinci te il Bartali passa per bischero e questo non deve accadere”.
“Sembravamo due fratelli”. Avrebbe detto poi Gino. “Cambi perfetti. Ritmo irresistibile. Una cronometro a coppie affrontata in salita. Ci separammo soltanto sul rettilineo d’arrivo. Io finsi di avere noie al cambio e Fausto andò a prendersi la meritata vittoria. L’affranto Ortelli mi detta la maglia anche se con il minimo vantaggio di pochi secondi”.
Bartali era padrone del giro per la terza volta. Dieci anni dopo il primo trionfo.
Niente giro di Francia perché, avendo noi italiani secondo la Francia, perso la guerra, ancora non eravamo presi in considerazione nella Federazione Internazionale.
Il giro della Svizzera fu dominato da Bartali ma al campionato del mondo la rivalità fra i due campioni italiani ritornò alla ribalta e la maglia iridata andò ad uno straniero quasi sconosciuto, un certo Knecht mai più rivisto alla ribalta.
1947
Bartali fece sua la Milano-Sanremo e dopo il giro d’Italia appannaggio di Coppi vinse il giro della Svizzera.
Non avendo partecipato alle gare selettive per la scelta degli atleti da inviare al campionato del mondo Bartali fu escluso dalla rosa. Credendo giustamente che non fosse necessario dimostrare qualcosa di nuovo sulla sua bravura Gino si era dedicato ai circuiti cittadini per raggranellare un po’ di soldi. Questa esclusione fu una vera ingiustizia perché Gino aveva ben dimostrato in tante gare il suo valore. Learco Guerra per questo fatto dette le dimissioni da commissario tecnico per protesta contro Rodoni, giudicato dalla “locomotiva umana” un omuncolo “ assolutamente incompetente” per quell’incarico.
GINO RIMASE SEMPLICEMENTE UN GRANDE ATLETA, NON POLITICIZZATO
E adesso c’era un’altra Italia dalla quale scappare pedalando !
Lui, figlio di un socialista, aveva capito una cosa basilare : la libertà era il valore fondamentale, da difendere sempre e comunque.
Il padre Torello non aveva mai nascosto le sue simpatie per i socialisti, per la politica di Turati e di Matteotti.
Lavorava, il babbo, come umile operaio per la ditta di Gaetano Pilati, un ex parlamentare del PSI. Pilati fu una della prime vittime, in Toscana, del “dopo Matteotti”. I sicari squadristi si presentarono una notte sotto casa sua e lo uccisero a sangue freddo: per papà Bartali furono giorni di angoscia perché anche Gustavo Console e Giovanni Becciolini, suoi amici e compagni di partito, subirono la stessa sorte.
Gino Bartali era ormai diventato un simbolo, piacesse o meno al diretto interessato. E proprio per questo il campione che aveva vestito la maglia rosa e la maglia gialla si prestava a facili strumentalizzazioni. A speculazioni di comodo.
Gino fu però irremovibile quando tentarono di portarlo nell’area politica.
“Non farò mai da specchietto delle allodole” : così Bartali rispose a una delegazione democristiana quando, nel gennaio del 1948, gli venne offerta una candidatura a Montecitorio.
1948 – IL TOUR DELLA LEGGENDA
Gino stava coltivando una idea meravigliosa. A distanza di dieci anni si era messo in testa di rivincere il Tour de France.
Di anni Gino ne aveva già trentaquattro. A lui non sembravano troppi.
Nel 1938 il mitico Girardengo era stato il direttore tecnico della spedizione azzurra. Alla domanda del suo pupillo di rifare la stessa cosa oppose una obiezione ineccepibile: estrasse la carta d’identità. “Sono troppo vecchio per un’altra avventura”.
Bartali allora andò a parlare con Alfredo Binda e trovarono l’accordo a condizioni ben precise. Disse Binda : “Tu ti scegli i compagni che preferisci, però la tattica la decide il sottoscritto”.
Le cose non si misero bene nelle prime tappe tanto che il 13 luglio Bartali doveva recuperare dall’astro nascente Luison Bobet, oltre venti minuti.
Ma Gino con la sua volontà di ferro si sentiva ancora padrona dal giro perché pensava che stavano arrivando le Alpi e sulle Alpi la giovanile esuberanza di Bobet sarebbe stata punita.
Il 14 Luglio, a Cannes, il Tour riposava
A Roma invece alle 11,30, un aspirante avvocato siciliano era arrivato a teorizzare nella sua fanatica follia la soluzione finale : Palmiro Togliatti doveva essere eliminato. A colpi di pistola, e lui era pronto e deciso a farlo !
Aveva già le manette ai polsi mentre un’ambulanza trasportava il leader del PCI all’ospedale.
Fonti della polizia avevano accertato che Pallante aveva agito senza complici: niente complotto, nessuna congiura, “solo” il gesto folle di uno squilibrato ma in molte zona d’Italia già si stava sparando.
Gino era ormai certo che il suo Tour fosse finito.
Impossibile pensare di continuare la corsa mente in patria la situazione stava precipitando.
“Tu non c’entri, ci hanno ordinato di rientrare” diceva Luigi Clerici a Bartali “Hanno sparato a Togliatti e in Italia sta scoppiando la rivoluzione. Dobbiamo pensare alle nostre famiglie”.
Questa era l’atmosfera, nell’hotel di Cannes, quando un cameriere si avvicinò a Bartali, C’era una telefonata per lui. Gino sperò si trattasse della moglie, che poteva avere notizie fresche su quanto stava accadendo in Italia e a Firenze in particolare. Ma la voce dall’altro capo del filo era una voce maschile. “Gino, mi riconosci ? Sono Alcide De Gasperi”. “Qui da noi c’è una enorme confusione” disse De Gasperi al campione “Pensi di poter vincere ancora il Tour ? Sai, sarebbe importante. Non soltanto perr te”.
Luison Bobet venne detronizzato dal grande Gino che vinse la corsa francese con quasi mezz’ora di vantaggio sul secondo classificato.
I francesi impazzivano per il veterano che aveva riconquistato la grande Boucle a dieci anni di distanza dal primo successo.
1949 – IL GRANDE AIRONE COPPI ALLA RIBALTA NEL GIRO
Fausto Coppi vinse questo giro del 1949 partendo come gregario di Bartali alla Legnano e Gino lo salvò per la prima volta della crisi dandogli concreto aiuto e coraggio.
Il corridore piemontese, da tutti giudicato il più grande di tutti tempi, incappava in crisi tremende quando la volontà di soffrire, un grande caldo o un forte dispiacere lo metteva a terra. Coppi era immenso in pianura come in salita e conquistò anche il record dell’ora. Non aveva certo però la volontà e la costanza di Gino.
Vergani scrisse di Coppi nella giornata che decise il Giro di quell’anno sulle Dolomiti, con una fuga di duecento chilometri e un vantaggio di diciotto minuti sul secondo arrivato al traguardo :
“Aquila, rondine, alcione, non saprei come dire, che sotto alla frusta della pioggia e al tamburello della grandine, le mani alte e leggere sul manubrio, le gambe che bilanciavano nelle curve, le ginocchia magre che giravano implacabili, come ignorando la fatica, Coppi volava, letteralmente volava su per le dure scale del monte, fra il silenzio della folla che non sapeva chi fosse e come chimarlo”.
Al giro di Francia Gino ebbe la conferma che di Coppi ce ne erano due. Lui salvò il primo quando una cotta tremenda rischiò di far uscire di gara Fausto e l’altro che invece poi vinse alla grande il Tour.
Gino arrivò secondo.
Fausto però disse chiaramente sul settimanale “Lo Sport Illustrato”: “Il mio avversario più grande in questo Tour è stato Bartali. Gino, quest’uomo di ferro che non conosce le leggi del tempo, non è stato fortunato. Ad Aosta dovevamo arrivare assieme: il caso ha voluto altrimenti, ma questo nulla toglie alla prova superba di Gino”.
1950 – UNA STREPITOSA VITTORIA NELLA MILANO-SANREMO
In volata superò Van Steenbergen e per Coppi in quella volata lo shock fu tremendo. Mai dire mai con il vecchio. “Quello là” commentò il campionissimo “non è mica un uomo. E’ un diavolo”.
Al giro d’Italia Coppi era uscito presto di scena per colpa di una spaventosa caduta con la rottura del bacino.
Dopo 3983 chilometri di corsa Gino aveva il miglior tempo effettivo: solo che per quella edizione gli organizzatori del Giro avevano stabilito di imitare il Tour, introducendo gli “abbuoni”, premi in secondi destinati ai vincitori di tappa e agli scalatori. Koblet, orologio alla mano, era andato più piano del Vecchio ! Eppure la classifica finale, l’unica che contasse, sosteneva il contrario.
L’Italia partecipò al giro di Francia con due squadre, una capitanata da Bartali e l’altra da Magni.
La stampa locale, purtroppo, aveva detto ripetutamente che la crisi delle vendite di bici in Francia era dovuta agli italiani che dominavano in tutte le corse. Si prospettavano licenziamenti. Secondo molti se Bartali o Magni avessero vinto la corsa, migliaia di posti di lavoro sarebbero andati perduti.
Questi erano argomenti che facevano facile presa sulle folle che insultavano, fischiavano e anche sputavano ai corridori italiani.
Raccontò ad un giornalista Gino Bartali: “ sul Tourmalet qualche scalmanato cominciò ad insultarmi e minacciando di farmi cadere. Io mi guardai bene da raccogliere le procovocazioni, ma quando le grida cominciarono a diventare troppo fitte, ebbi paura e rallentai. Mi raggiunse Bobet : essendo l’idolo di casa, pensavo, standogli accanto, di stemperare i bollori della folla. Bobet e Okers mi promisero che mi avrebbero difeso ad ogni costo. Su l’Aspin, però, la gente sembrava impazzita. Sputava, lanciava sassi, bastoni e cocci di bottiglia. Mi trattennero per il manubrio gettandomi a terra. Robic mi finì addosso. Volarono pugni e calci e mi difesi come un pugile furioso. Riuscii a ripartire e vinsi la tappa ma con quel clima era problematico continuare il Tour”.
A malincuore e con diversi “distinguo” tutti gli iyaliani lasciarono il Tour. “Peccato” diceva poi Gino “perché quel giro, a 36 anni, l’avrei vinto agevolmente contro i migliori giovani della nuova Europa”.
1951 – MUORE SERSE COPPI, COME FU DI GIULIO BARTALI NEL ‘36
Nel giro del Piemonte che sarà vinto da Gino, una ruota della bicicletta di Serse Coppi si incastrò nella rotaia del tram. Il corridore urtò la testa contro il marciapiede e poche ore dopo perse la vita. A Bartali sembra di rivivere l’incubo del 1936, la tragedia del fratello Giulio. Anche nella maledizione la storia di Fausto Coppi sembra identica alla sua.
Anche stavolta lui è l’unico che può davvero capire lo stato d’animo del Campionissimo.
Il giro d’Italia è vinto da Magni.
Al giro di Francia Coppi è un fantasma, pur incoraggiato da Gino crolla clamorosamente. Con la sua classe Fausto inventa un numero straordinario sulle Alpi e vince a Briancon tra gli applausi di una folla commossa. Ma ormai il rivale di Bartali ha altro per la testa, ed altro nel cuore, perché non è più innamorato della moglie Bruna.
Gino invece in questo giro, con trentasette anni sulle spalle, è grandissimo.
E’ il migliore degli italiani e sfiora il podio arrivando quarto in classifica generale e secondo nel premio della montagna.
1952 – FU L’ANNO DI COPPI CON LA DOPPIETTA GIRO-TOUR
Fausto vinse il giro con Magni secondo e Bartali quinto. Dominò nel Tour dove gli organizzatori si trovarono costretti a moltiplicare i premi per i migliori fra gli sconfitti: speravano di tener viva una corsa che era schiacciata dal dominio incontrollato di un personaggio inimitabile.
Al parco dei Principi di Parigi, quando Bartali fece il suo giro d’onore dopo quello del trionfatore, tutti si alzarono in piedi e molti avevano le lacrime agli occhi.
Gino vinse poi magnificamente il titolo di Campione d’Italia disputato in più gare.
1953 – L’ANNO DELLA “DAMA BIANCA”
Fausto vinse il giro d’Italia, dove Gino fu quarto, ma rinunciò a quello di Francia perché voleva il campionato del mondo che conquistò.
Bartali dopo aver vinto brillantemente il giro dell’Emilia e della Toscana si guadagnò ampiamente la partecipazione al Tour insieme a Magni e Astrua. Arrivò undicesimo.
La relazione di Coppi con la “Dama Bianca” venne alla luce proprio al Tour. Coppi, con la scusa di andare a vedere Bartali, aveva preso qualche giorno per stare con lei , recandoci sull’Izoard, dove si era fermato per incitarlo. Fu visto da un fotografo, che lo immortalò in un’immagine pubblicata poi su molti giornali con la didascalia: Coppi e la moglie applaudono il Giro sull’Izoard. Solo che quella non era sua moglie !
Nell’ottobre in un grave incidente automobilistico Bartali riportò la frattura dell’apofisi traversa della prima e seconda vertebra lombare. Fausto lo andò a trovare all’ospedale e gli disse amichevolmente: “Ehi malato, adesso non dirmi che smetti, nessuno ci crederebbe. Capisco che ti dia fastidio vedermi in maglia iridata, ma te ne devi fare una ragione”.
Gino continuò a correre per la gioia di tutti gli amanti del ciclismo fino a quarant’anni, dopo aver percorso oltre seicentomila chilometri, quindici volte il giro dell’equatore.
Tra il 1935 e il 1954 aveva accumulato 964 giornate di gara. Aveva collezionato 144 vittorie : tre Giri d’Italia, due Tour, quattro titoli italiani, quattro Milano-Sanremo, tre giri di Lombardia. E c’erano da conteggiare anche 75 secondi posti e 51 terzi posti.
Inoltre per 267 volte si era piazzato tra la quarta e la decima posizione.
Senza contare tutte le gare vinte da ragazzo, quando era riuscito addirittura ad inventare di intascare il primo e secondo premio per portare più soldi a casa per far più contento papà Torello.
1954 – L’ULTIMO ANNO DI CORSE PER IL GRANDE GINO
Oltre al Giro, corse altre sedici gare ufficiali e in numerosi circuiti e riunioni in pista.
Ce la metteva sempre tutta e gli spettatori andavano in delirio.
Il 28 novembre 1954 il Vecchio si reca a Città di Castello. Ha scelto la località umbra per il circuito dell’addio. Ha scelto Città di Castello perché non ha dimenticato l’aiuto di quanti lo protessero nei giorni terribile del 1943.
Gino pedala in mezzo al gruppo, pedala ed ha il magone: soltanto Coppi, che partecipa alla gara, e la moglie sanno che questa è l’esibizione finale.