Maggio 2012 BIONDO ERA E BELLO (la vita di Dante) di MARIO TOBINO

notizia pubblica il 06/05/2012 - ultimo aggiornamento del 29/06/2012

CASA CULTURALE DI SAN MINIATO BASSO

SEZIONE SOCI COOP DEL VALDARNO INFERIORE

 

MAGGIO  2012

 

BIONDO ERA E BELLO

(LA VITA DI DANTE)

Di Mario TOBINO

 

Si riportano integralmente solo alcune parti di questo libro che ci descrive la grandezza di Dante nel trecento della nostra penisola.

 

GLI INIZI NELLA SUA FIRENZE

            In casa non aveva nutrimento di affetti.

Il vecchio Alighieri badava al suo negozio, amministrava i beni, riscuoteva gli affitti. Del figlio non aveva cura. Nessuno in casa, al di fuori della sorella maggiore, avvertì lo straordinario destino. La madre era morta che lui era bambino. Al di fuori di questa sorella non ebbe Dante tepori familiari.

Nella sua casa in mezzo a Firenze, benché suo padre avesse preso una seconda moglie e da questa avesse avuto figli, per sé possedeva una stanzetta e questa fu testimone delle sue prime visioni; fulva fiera in una gabbia, il futuro davanti, una misteriosa ansia che invece di fiaccarlo lo faceva agile. Le parole gli uscivano schietta, avvertiva che doveva arricchirle. Continuava a praticare la musica e il disegno.

Ognuno ha la propria fortuna, ognuno è costretto a fare i conti con la sua situazione. Chi nasce in Germania, chi nel Mississippi, chi è graziosamente di Cartesio. Dante nacque a Firenze mentre questa stava preparando le condizioni perché germogliassero gli ingegni più grandi e al figlio preferito, a Dante Alighieri, impose il massimo compito: che rendesse eterna la lingua di Firenze, un linguaggio per tutta l’Italia, il volgare, non il latino, non la rotondezza degli avvocati, ma il genio che lampeggiava per le strade, nelle bettole, sillabato dagli artigiani, fiorito dai beccai, reso secco dagli stipettai, gonfiato dai tappezzieri, il volgare, quello che gli amanti sospiravano durante abbandoni.

Date pubblica il primo libretto; è ansioso di farsi conoscere. Le pagine sono fresche e sincere; certi raccontini e in specie i versi che celebrano la grazia della sua donna, di Beatrice, commuovono le giovani fiorentine e i loro innamorati. Il nome di Dante comincia a serpeggiare per Firenze.

Però i suoi amici – che si sono infittiti – lo conoscono per diverse ed altre qualità, oltre le rime d’amore: è un conversatore inesauribile e spesso le sue parole si tramutano nel fuoco dell’eloquenza, di tutto discute, è lucido nell’astronomia e sorride quando si diverte con la musica o col disegno. Con lui non ci si annoia mai. Non solo Cavalcanti, l’elegantone e il Magnate, ci sta volentieri insieme, e Cino viene a trovarlo da Pistoia; i rampolli delle grandi casate lo ricercano, giovani più ricchi di lui, e insieme baldorieggiano.

Dante con l’impeto che possiede si tuffa anche nelle feste, nei bagordi notturni e fatalmente nacque uno scontro, una zuffa a sonetti, memorabile, perché svela di Dante il pozzo di natura, uomo che ha percorso ogni vicolo, passato ogni guado , prima di inoltrarsi sulla maestà delle grandi vie.

Uno dei compagni delle veglie notturne era Forese, Forese Donati, fratello di Corso, ardito e fiero; sua sorella è Piccarda, gemma di bellezza. La loro famiglia Donati è tra le più ragguardevoli di Firenze.

Forese era famoso per la lingua serpentina. Ma anche a Dante le parole perforanti davano un gran gusto. Va bene parlare d’amore secondo la moda ma manovrare la lingua come il popolo, saettare uguale al pescatore con la fiocina quando conficca il tridente nel dorso, è piuttosto bello. Lo scambio di sonetti fra Forese Donati e l’ Alighieri è illuminante per conoscere la gioventù di Dante, gli anni con il sangue acceso.

 

DANTE AFFASCINATO DALLE DONNE

Dante e gli altri giovani rimatori poetavano, consideravano le donne delle dee, la bellezza femminile un gaudioso mistero

Per nominare le donne veramente belle di una città ci vuole uno che ci si sia dedicato, un vero amatore. Si devono conoscere perfettamente tutti i quartieri, averli molto frequentati: quella cresce, tra poco sfiorirà, l’altra ha aperto tutte le foglie, questa sta appena gemmando.

Dante da giovane fece un sirventese dove ne elencava sessanta. Sessanta.

Sessanta belle donne, Beatrice è la nona. Ne aveva girato di strade, ricche e povere, li aveva furettati gli occhi tra le case della cerchia antica e per i nuovi sobborghi di Pinti, alla Croce, di San Lorenzo; aveva spiato per ogni dove, lungo l’Arno e distante, dalle parti del Mugnone, intorno al palazzo del Podestà e nelle vicinanze della chiesetta di San Pietro Scheraggio. Elencarne sessanta è un bel guerreggiare, è vincere un torneo.

Firenze era tutta tesa di intelligenza, individuava con occhi di falco chi aveva ingegno, chi al ben fare era disposto. Dante era giovane, si rinchiudeva nella sua cameretta a delirare d’amore; era bello di ogni virtù, ricco di tutte le facoltà, ammaliava chi incontrava. Ha appena finito il sirventese delle sessanta più belle. Lo ha passato agli amici. Una sera sono tutti in crocchio, si son dato l’appuntamento. Sono cavalieri che rimeggiano d’amore, ciascuno ha sua bella, per la quale, mentre verseggia, si strappa i capelli.

“L’hai fatta grossa ”ghigna Forese. “Credi di sapere tutto sulle donne, di dettare legge. E pensare che in quel vicoletto per la prima volta ti ci ho portato io. Per quel che mi riguarda te ne cito tre: la Girolami, l’Ardinghelli e la Spini, abitano vicino a casa mia e me le mangerei tutte e tre. E tu le hai confuse nella folla, tra le trentesime. Spiega allora perché l’Albizzi è sopra a tutte, in testa alla classifica.” “Ma ora tutti all’osteria” ordina Forese, “Lì discuteremo. Ti dovrai difendere. Ci devi spiegare. E pagherai tutto te”.

 

TEMPI DURI NELLA FIRENZE DEL TEMPO

Non erano tempi di zucchero. Non c’era miele a Firenze ai tempi di Dante, ogni giorni scoccavano faville. Un cavaliere usciva dal suo palazzo; in fondo alla strada avanzava uno della odiata casata. Non perdere quella fortuna! Trasformare in realtà il cullato sogno di vendetta.

Per illustrare i tempi di Dante ecco quello che ha detto Dino Compagni:

Pazzino Pazzini era già anziano e di tutte quelle bufere si era stancato. Non aveva più voglia di asprezze e tra sé e sé coltivava una malinconia, la vita fugge, anche lui ne voleva assaporare qualche gioia, per lo meno la contemplazione della natura.

Un dopopranzo d’estate disse a un suo famiglio:

“Andiamo a cacciare sull’Arno. Vai a prendere il falcone.”

“Noi due soli ?”

“E perché no ? Non senti che pace ? Guarda il cielo come è trasparente!”

Partirono verso il greto. Il servo teneva appollaiato sull’avambraccio il falcone. L’Arno era una sottile riga, tra pochi sassi mormorava freschezza.

Cominciarono a far volare l’ammaestrato predatore. Era una felicità perdere le pupille nella maestà del cielo. Si divertirono per delle ore e quasi non c’era più differenza tra servo e padrone.

Però un fedele della famiglia Cavalcanti passò per caso da quelle parti e con libidinoso stupore scoprì che Pazzino Pazzini se ne stava quasi solo in un terreno libero alla preda . Sapeva che i suoi padroni lo odiavano perché sicuri che avesse spronato il podestà Fulcieri de Calboli a far uccidere un loro congiunto.

Corse verso Firenze, al palazzo dei Cavalcanti. Entrò trafelato e disse al più animoso della casata, al giovane Paffiera:

“Presto ! Sul greto dell’Arno, là, c’è Pazzino dei Pazzi, con un solo imbecille. E’ perso dietro la caccia al falcone”.

“Andiamo ad ucciderlo.”

Furono pronti i cavalli e arrivarono sul luogo, lo scorsero che ancora seguiva il percorso degli uccelli. Si nascosero dietro gli sterpi. Furono a pochi metri.

Pazzino dei Pazzi d’improvviso si rinvenne, rifù del proprio tempo; e prese la fuga. Lo raggiunsero con le spade. Cadde vicino all’esile corso dell’Arno ed era ancora vivo. Allora, mentre, vecchio, agonizzava, gli segarono le vene, e morì sull’arido greto.

 

ENTRA IN POLITICA

I Magnati erano assolutamente convinti che Firenze fosse un loro feudo. Intanto però il ceto medio tanto disprezzato, quei mercanti, imprenditori, industriali, artigiani, erano saliti al palazzo del Comune.

Dante entra in Comune e si scontra con questa realtà:i Ghibellini odiano i Guelfi e all’incontrario, i Bianchi maledicono i Neri e ne sono ricambiati, i popolani hanno come immonda arpia la prepotenza dei Magnati e questi considerano il popolo dei vermi da schiacciare. Gli odii privati sono snellissimi serpenti.

Divina innocenza, fantasia in furore del nostro più grande poeta. Lui del Medioevo ha la religione non la cattiveria. Vuole la giustizia, a Firenze, dove gli spiriti sono tesi come le balestre in combattimento. Vuole che il Comune sia superiore a tutti, forte da spengere ogni fazione, rimarginare le ferite. Il Comune salute di ogni cittadino.

Fu consigliere, poi savio, poi del Consiglio dei cento.

Per quale ragione lo hanno eletto ? Non per il suo libretto d’amore o per le rime o perché filosofo, latinista, musico, perché ha leggiadria e nemmeno perché si infuoca parlando di giustizia e afferma che il Comune deve essere superiore a tutti. Lo hanno votato con sicurezza e felicità per il volgare, perché in volgare esprime ciò che i popolani sentono di avere nell’anima. Sono rapiti di udire la descrizione di ogni fatto, di ogni ragione, con parole usuali ma divenute all’improvviso potenti, insostituibili. Dante sceglie dal mucchio delle parole in uso quelle vere, divenute dopo lunga fatica pura conclusione; le prende in mano e sono perle. Solo lui in una parola del popolo fa luce, come sacra, non è più nemmeno fiorentina, è di tutta la gente.

Ma Firenze non è soltanto la scoperta del volgare. I venti della lussuria, invidia, superbia, avarizia, fischiano per le sue strade, si infilano per ogni porta socchiusa, per ogni spiraglio di finestra, dividendo gli stessi componenti di una famiglia. Di questa bestialità proprio Dante dovrà presto valutarne il peso.

Urgente è far fronte al Papa, a Bonifacio VIII, ebbro della sua famiglia, che ora fa guerra ai Colonna, guerra personale, per accrescere le terre dei suoi, dei Caetani.

Per questa sua libidine Bonifacio ha chiesto a Firenze denari e soldati.

Il dovere del Comune è rispondere no. Dante per questo ancora più si infiamma, è francescano, la Chiesa sia pura, madre di tutti, senza orpelli, non compri, non venda. La Chiesa coltivi le anime. Dante comunica la sua convinzione; è il capo di questa battaglia.

Dante è nel glorioso suo periodo, è dentro le cose, soldato di San Francesco. I suoi comizi sono affollatissimi. Saranno proprio questi comizi a farlo rappresentativo di una politica, a portarlo alla miseria, sbandito, saranno i nefasti comizi a lasciarlo solo in una strada, a dover chiedere un pane in terra straniera che quando si biascia nella bocca ci si accorge quanto è salato.

Intanto tra questi fuochi politici e poetici, Dante piglia moglie. Non è l’amore. Deve assolvere a un patto, risolvere un contratto. Suo padre, secondo il costume del tempo, quando lui era poco più di un bambino, si mise d’accordo col cavaliere Manetto dei Donati.

“Allora li sposiamo. Quanto dai di dote ?”

“Duecento fiorini piccoli”

“Un po’ poco.”

“Non posso di più. E tu ?”

“Gli metto in testa il podere di Camerata di Fiesole e quello di San Miniato di Pagnolle.”

Dante era tutto preso dalla politica, e tra un comizio e l’altro, la famiglia disavvedutamente crebbe.

La Gemma era una donna come ce ne sono tante, ignara delle violenze fantastiche del marito, ignorante di che gli navigava nella mente, dei suoi miraggi di divina bellezza.

 

RITRATTO DI BONIFACIO

Era un uomo altissimo, di statura superiore. Il volto deciso, un avido che non si leva mai la fame. La Chiesa aveva il vento in poppa e lui approfittava. Nel trecento si credeva in Dio, nel purgatorio, nel pontefice, nell’inferno. Una scomunica avvelenava, bruciava. Bonifacio poteva tutto e accumulava per sé e i Caetani. Implacabile nemico dell’altra famiglia romana, i Colonna, che sognava ridurre sul lastrico, sterminare.

Il suo piacere è la sua legge, e trova chi lo serve. Quel tale gentiluomo pisano esulta ad offrirgli la giovinetta figlia e il fresco figlioletto. Libidine senza ostacoli.

Bonifacio continua a bussare, minacciare, esigere dai priori fiorentini ubbidienza, anzi servitù. I priori resistono e il più infiammato per la libertà, per la legge al di sopra delle fazioni, per la giustizia, contro le lotte fratricide, per una sua ideale Chiesa, è Dante Alighieri. Ogni giorno nei comizi raduna, incoraggia, accende la fede.

Per tentare di calmare Bonifacio i fiorentini mandano a Roma tra ambasciatori che rassicurino il Papa sul loro ardore religioso e insieme si adoperino per conservar libera la città, lo preghino che non sia invasa da un esercito straniero.

Il Pontefice rassicura gli ambasciatori, stiano tranquilli, tornino a casa, non accadrà nulla. Dante è bene rimanga, per intendersi su qualche particolare. Gli altri ambasciatori rivadano in pace. Bonifacio sa che l’Alighieri è colui che infiamma i comizi, un francescano, illumina le anime, appassionato di giustizia. E’ prudente trattenerlo.

E’ distante Firenze da Roma, ma frustando i cavalli, più spesso cambiandoli, le notizie arrivano presto. I francesi sono entrati. Corso Donati a cavallo, alla testa di una avvinazzata schiera, ha dato l’avvio ai delitti, alle depredazioni, agli incendi.

Presto arriverà anche la notizia del processo, accusato di essere ladro, raggiratore, ignobile cittadino. Il Papa manda in esilio Dante Alighieri, il nostro poeta. Accordandosi con Carlo di Valois, con i Neri, condanna Dante a non vedere mai più Firenze, mai più il suo bel San Giovanni.

Dante è all’inizio dell’esilio. A Roma gli sono arrivate tutte le notizie. Il giorno dieci marzo 1302 il banditore per le vie di Firenze ha gridato la seconda condanna, il rogo, se lo prendono lo bruciano vivo.

 

 

 

A VERONA, DA BARTOLOMEO DELLA SCALA, IL GRANDE GHIBELLINO

            Passano i giorni. Gli esiliati si sono raccolti a Siena, Pisa, Arezzo, nemiche di Firenze. A San Godenzo, l’otto giugno del 1302 c’è il primo raduno. Sono i capi, i più importanti, quelli del censo, i ricchi e fra loro c’è anche Dante. Il poeta ha trentasette anni, non è certo per la sua ricchezza che è stato invitato ma per la sua persona, per fama, per virtù, perché sapevano bene chi era. Gli viene affidata la missione di andare a Verona da Bartolomeo della Scala per ottenere fanti e cavalli.

            A Verona tutti sono felici di conoscerlo: un uomo dallo sguardo ardente, che parla in eccezionale modo. L’ambasceria ha buon esito, è necessario tornare alla guerra, al proprio destino, riconquistare la patria che si è persa.

            Laggiù i Neri, vittoriosi, in città, hanno la testa ben chiara. Hanno vinto, hanno confiscato, vogliono mantenere. La fazione avversa sia sempre più misera e sbandita. Sono informati di tutto, dei contatti con della Scala, della riunione a San Godenzo e del patto firmato nel coro dell’abbazia. Per capo si sono scelti un forestiero con gli occhi iniettati di sangue, felice quando maneggia la ferocia. Si chiama Folcieri dei Carboli, romagnolo,di Forlì. Un ottimo soldato, ama le armi e la battaglia.

            Nell’opposto campo, tra i Bianchi, oltre i recenti esiliati ci sono i Ghibellini della Toscana e della Romagna. Scelgono come capo Scarpetta Ordelaffi, romagnolo pure lui e di Forlì. E’ ben noto che questi due si odiano a morte, nemici di vecchia data.

            Dante sa bene chi sono i suoi compagni, non è cieco. C’è qualche nobile e fiero ghibellino, qualche bravo e generoso guelfo, ma in numero scarso. La torma – capi e gregari – è di angusti di mente e meschini d’animo, segretamente con l’occhio alla preda, provvisori, indisciplinati, scioccamente arroganti, brancolano verso una vile vendetta. E Dante cerca di dare volto a quella accozzaglia. E’ ancora lui, come al tempo dei comizi in Firenze, che anima, spiega, tenta di legare, sprona all’ideale; la stessa energia. Una disperata speranza lo muove, il miraggio di tornare all’amato ovile.

 

            LA BATTAGLIA DI PULICCIANO

            Si vide a Pulicciano se i Neri erano decisi a farla finita con i Bianchi; oltre sgominarli, farne ludibrio, ridurli ridicoli davanti al popolo.

            Subito proclamarono: “Voi Bianchi vi siete uniti ai ghibellini. Dunque siete dei traditori e dei banditi, contro il Papa,contro la Chiesa, degni della forca.” “Giusto estirparvi ! Non ne rimanga grano in Firenze, tirar giù anche i tiepidi, quelli in ombra e incamerare sostanze, confiscarvi tutto.”

            Dante è al centro delle cose, alla cancelleria dell’Ordelaffi. Aveva animato, incoraggiato, un tizzone, pur giudicando chi intorno gli si muoveva. Subito sa le notizie; i fuggiaschi trafelati le fanno più fosche. Di nuovo la patria si allontana, di nuovo la speranza si dilegua. Quanto aspettare ancora ?

 

            LA NOTIZIA FOLGORANTE: E’ MORTO BONIFACIO

            Per i Bianchi oltre l’avvilimento della sconfitta c’era stata le feroce beffa sui prigionieri, la berlina prima del patibolo.

            Quando arrivò la folgore della notizia !  Bonifacio VIII, il Papa, il vecchio dalla lingua vibrante del serpente, il nemico primo, la fonte di tutte le sventure, era morto, era freddo su un catafalco.

            Mentre l’estate cominciava a spengersi, ai primi di settembre, Bonifacio da Roma aveva raggiunto l’amata Anagni, paese natale, sua roccaforte. Aveva con sé i parenti Caetani e cinquecento armati. Era pasciuto della sua tronfiezza, il potentissimo della terra; al suo passaggio il popolo giustamente si escoriava rotolandosi nella polvere disseminata di sassi. Anche i re si facevano bassi davanti a lui.

            C’era soltanto quel Filippo il Bello, re di Francia, che scalpitava, recalcitrava, non faceva eco alle sue mire, non assecondava gli interessi dei Caetani, tentava arginare l’estendersi della Chiesa. E già una lezione gliela  stata data, la scomunica.

            E adesso era per ricevere un’altra sberla: Bonifacio VIII aveva in animo infatti di incoronare imperatore Alberto d’Austria, farlo capo di tutti i re, padrone anche di Filippo il Bello. Venisse umiliato quel re di Francia !

            Nel suo palazzo di Anagni se ne stava il Pontefice sul finire di quell’estate 1303, sicuro che nessuno osasse fronteggiarlo. Invece non era così.

            Il re di Francia era un uomo prudente e sottile. Con determinazione si mosse e fece istruire il suo popolo. Dagli altari il clero minuto e su su fino ai cardinali spiegarono ai credenti che quel Papa era sudicio di ogni vizio, commerciante di cose sacre, adoratore di paganità, eretico, nemico della Chiesa; funesta realtà che sedesse sul trono di Cristo.

            Quando Filippo il Bello intese che il popolo era con lui, stretto, allora indìsse  due grandi assemblee, folte di baroni, prelati, legisti, francescani, domenicani. Le assemblee indicarono il papa Bonifacio VIII quale eretico, negatore dell’immortalità dell’anima, della vita eterna, imbrattato di ogni villania e peccato; invitarono il Re a indire un Concilio, al quale Bonifacio doveva presentarsi.

            Figurarsi se Bonifacio avrebbe ricevuto il rappresentante di uno bollato dalla scomunica ! E anche fosse accaduto, come avrebbe potuto dire sì, lui, eccezionale pontefice, con lo scettro che gettava ombra sulla terra, lui che era sempre stato accusatore, aveva sempre e per ogni dove tagliato definitive sentenze ?

            Filippo il Bello organizzò l’assedio di Anagni con più di ottocento congiurati fra fanti e cavalieri. Accatastarono fascine intorno alla cattedrale e appiccarono il fuoco. Gli assediati dovettero cedere e le porte si aprirono. Il fedele cortigiano Nogaret arrivò alla stanza del Papa, davanti a Bonifacio.

            Come un toro nell’arena che fino all’ultimo combatte, tale fu. Apparve guerriero in ogni suo comportamento, e meglio degli aggressori. “No” urlò il vecchio. “Tagliatemi il collo, ma no. Sono pontefice, tale rimango” e sembrava brandisse uno scettro fiammeggiante.

Il compito del francese Nogaret era imprigionare il Papa, portarlo al Concilio, davanti al suo Re.

Ma eravamo nel 1303. Gli uomini credevano. Giotto faceva madonne che mai furono così belle, carnali e sante, Gesù abitava nei cuori, il Pontefice era Dio sulla terra, si credeva nella resurrezione della carne,al raduno nella valle del Giosafatte, nell’inferno, nel purgatorio, nel paradiso, nei diavoli, nei santi.

Tre giorni durò l’ateismo. Tre giorni corsero per le stanze i predatori, gli spergiuri.

Il popolo della cittadina si radunò e corse in aiuto al suo Papa che rimase ancora undici giorni nel palazzo saccheggiato e poi rifù a Roma.

La notte si aggirò tra le sue mura, urlando selvaggiamente; a tratti incredulo che tutto ciò fosse accaduto. Morì di crepacuore dopo tre settimane.

 

PAPA BENEDETTO XI

Il nuovo papa volle subito lenire l’odio che avvelenava Firenze e con sottigliezza scelse un paciere, accetto a tutte le parti e lo invitò nella città del poeta. Era un frate predicatore, cardinale Niccolò da Prato, di antica famiglia ghibellina e i guelfi bianchi e neri, guerrieri del Santo Sepolcro, non avevano da opporsi.

Ottenne che i rappresentanti dei Bianchi e Ghibellini entrassero in Firenze con le loro insegne e si incontrassero con i rappresentanti dei Neri. La città era divisa in sei parti, sei rioni. Ogni sestiere sarebbe stato rappresentato da due Neri e da due della parte Bianca-Ghibellina.

Dante seguiva da Arezzo ogni mossa, con trepidazione.

Ma la guerra fra le fazioni era inevitabile perché troppo era l’odio fra accumulato negli anni e i Neri ebbero la meglio e impiccarono anche ventuno prigionieri.

Dante è ancora ad Arezzo. Il ritorno dei fuorusciti è stato più greve di veleno di quella volta di Pulicciano.

Ogni miraggio è caduto. La passione politica, l’ira dalla quale anch’egli era scosso , la dolce speranza di rivedere il bel San Giovanni, sono ormai lontane dalla sua anima. Dante è solo. Povero e solo. I fiorentini, siano Bianchi o Neri, Guelfi o Ghibellini, sono libidinosi di delitti. Tutti maledetti.

Non c’è che da allontanarsi dalla Toscana, da quella gente, diventare un pellegrino, battere alle altrui porte.

 

GLI SCALIGERI DI VERONA

Che fare ? ove andare ? quale via prendere ?

Verona è il suo nuovo nido, la dolce speranza. Dante già l’ha conosciuta per quella volta che ci arrivò prima della battaglia di Pulicciano, a chiedere aiuto di fanti e cavalli.

La corte degli Scaligeri è magnifica per liberalità; quanto differente dall’odio fiorentino che sbatte da finestra a finestra per ogni via. Qui una sola famiglia a comandare, i nobili uniti. Letizia per le strade, il popolo allegro per il buon governo e per le feste; orgoglioso anche dell’onore militare degli Scaligeri.

Dante a Verona è stato nobilmente accolto, siano rese grazie alla Casa che nello stemma ha l’uccello con le ali stese. Ma il fuoco del secolo è là, i Bianchi e i Neri, Guelfi e Ghibellini, Giotto e Cimabue, il nuovo stile della sincerità. Tutto il resto è fuoco fatuo, compreso l’Imperatore tedesco sempre ad annunciarsi e mai ad esser vero.

Come può Dante, lì a Verona, appagare la sua voglia ? E allora che direzione prendere ? Da chi andare ?

 

L’AMICO CINO DA PISTOIA

Un tenero amico vive a Bologna; come lui poeta. E’ simile a lui anche per l’esilio, per l’esser lontano, e per di più sono uniti dallo stesso sogno politico, quello dell’Imperatore, che scenda in Italia e spenga ogni rabbia, tronchi le guerriglie, faccia degli statarelli una sola patria, sia l’unica massima fonte di giustizia e di pace.

Cino è in discrete condizioni economiche e scrive a Dante, insiste che venga, l’aspetta, sarà suo ospite. A Bologna potrà lavorare quanto e meglio che a Verona.

Dante riverisce il suo signore, chiede congedo, parte per l’Emilia.

 

IN VAL DI MAGRA DAI MALASPINA

Nel Due Trecento i padroni della valle percorsa dal fiume Magra erano due: la chiesa di Luni e i marchesi Malaspina. 

I marchesi Malaspina avevano i castelli appollaiati sulla cima dei colli lungo la Val di Magra; di lì spiavano, pronti ad aggredire ed anche difendersi.

Il vescovo di Luni aveva un castello sul colle di Castelnuovo, che è proprio sopra la foce del Magra. Sulla fine del Duecento vescovo di Luni era Enrico da Fucecchio, uomo ardito, fierissimo dei diritti della sua chiesa, per nulla arrendevole di fronte a quei Malaspina, pronto a rispondere ferro a ferro. I contrasti erano di tutti i giorni, per ogni sorta di questioni, dispute di confine, arroganza dei rispettivi soldati, spettanza delle prede. E a dimostrare che non solo a Firenze ma quelli erano i tempi, valga quella volta dei tre ambasciatori dei Malaspina, mandati al vescovo, a Enrico da Fucecchio, per mitigare una certa impresa che era finita troppo aspra, per tentar di sbollire la rabbia del vescovo.

Si presentarono i tre dipendenti dei Malaspina a Enrico da Fucecchio, e questi non li stette a sentire. Ordinò che a tutti e tre fosse staccata la testa.

Fortunatamente ad Enrico da Fucecchio successe un uomo dolcissimo, Alberto dei Camilla, un vecchio che per umiltà ricordava Gesù.

Tra i Malaspina correva il nome di Dante, se ne citavano i versi; specie Moroello, il fratello di Franceschino, era con l’Alighieri legato di amicizia. Non era facile nel Trecento incontrare un uomo che conoscesse la musica, fosse egregio nel disegno, padrone del latino, profondo in astrologia e teologia, rimatore d’amore, prosatore in sapienti trattati, e non solo, ma fosse anche pratico di pubblici affari, sottile diplomatico, esperto della procedura, paziente nel condurre le questioni.

Dante fu invitato da Franceschino a condurre le trattative di pace. Un esiliato accetta quel che gli capita e in questo caso con piacere perché i Malaspina sono famosi per generosità, onore; e sarà bello inginocchiarsi davanti a quel venerabile sacerdote, il vescovo Alberto dei Camilla.

I rappresentanti del vescovo ascoltano Dante che ogni giorno di più li affascina con la dottrina, l’eloquenza, e innanzitutto per l’appassionato amore della giustizia, questa la sua vera mira, la profonda ricerca. Guidati da Dante, presto l’accordo è raggiunto.

 

NEL CASENTINO - DAI CONTI GUIDI

Dante era in vaga parentela con gli Elisei, che erano amici dei Guidi, e questo forse favorì l’invito da parte dei signori del Casentino; ma il fatto sostanziale è che ormai Dante è conosciuto per le doti che possiede in ogni campo e chi è potente – e dunque alle prese con affari e quistioni – è ben lieto di averlo vicino.

A dame e cavalieri Dante leggeva in Casentino, nei castelli Guidi, i canti della Commedia. Inviava poi i suoi versi agli Scaligeri di Verona, coi quali era rimasto in amicizia, a Moroello in Lunigiana e al caro Cino da Pistoia.

In quegli anni i suoi versi furono amati, rubati, letti, ripetuti, mandati a memoria, odiati, chiesti in imprestito, in fretta ricopiati; sempre più passarono di mano in mano fino ad arrivare al mare del popolo, a coloro che con il volgare esprimevano se stessi.

Ma un giorno il fanciullino con la faretra che da tempo era appostato per una beffarda burla a quell’altero, a quel superbo, un giorno Amore scocca il dardo, glielo aggiusta bene dentro il cuore, glielo sprofonda. Dante si trova innamorato come da giovanetto la prima volta.

Ora l’alba lo trova sveglio non sulle carte, non in compagnia dei suoi autori, ma stranito da quella immagine alla quale parla, in lei si incanta, eccolo che ne ascolta la voce, il trillo di un riso, e le sue mani timidamente brancolano verso quella figura. Si dimentica dell’età, dei travagli politici, dell’esilio, della stessa Firenze, del suo lavoro.

Al vecchio amico Moroello in Lunigiana scrisse queste frasi che dicono tutto: “Sai come amavo Firenze e mi consumavo per ritornarci. Ebbene, se i fiorentini oggi mi richiamassero, mi invocassero pentiti, risponderei: “’No e no Dal Casentino non mi muovo, da lei non mi allontano. Lei è qui e io le sto vicino. Da dove lei respira non mi posso allontanare.”

“O la Gemma, poverina !” qualcuno dirà. “Non era la moglie ? con quattro figli da badare, tra cui una fanciulla, Antonia?”

Sì, sì, è vero. Dante avrebbe dovuto pensare anche a moglie e figli. Ma nel Medioevo li accoppiavano poco più che bambini. Un padre si metteva d’accordo con l’altro, si discuteva sulla dote, si firmava. Appena raggiunta l’età pattuita – di solito intorno ai diciotto anni – si piacessero o no, magari innamorati perdutamente di un’altra persona, li portavano in chiesa ed erano marito e moglie. I figli di Dante nacquero uno dopo l’altro, nel periodo della passione politica, mentre era tutto occupato a difendere la libertà del Comune. Il matrimonio era una pratica burocratica, un contratto e naturalmente l’amore continuava a scoppiare per conto suo.

 

A PARIGI LA GRANDE NOTIZIA

Dante abbandona il Casentino e arriva a Parigi per documentarsi, affinarsi, aggiornarsi, paragonare le sue credenze e conoscenze con quel che lì si dice.

Mentre è lì, ospite di un popolo straniero, arriva la notizia folgorante: L’imperatore fatto di fresco, quella’Arrigo lassù, il tedesco proclamato da poco Imperatore dei Romani – e con lui c’è il Papa, il Pontefice che approva e benedice – l’imperatore Arrigo annuncia che scenderà in Italia – il Veltro – e non esisteranno più Guelfi, Ghibellini, Bianchi, Neri, e tutte le altre divisioni; in ogni paese, in ogni valle porterà la pace. Lui è la suprema autorità, mandato da Dio, al di sopra di odii, fazioni, maledizioni, è il capo di tutti, e tutti gli devono ubbedienza. Volerà sopra l’Italia come colomba; e se mai sarà l’aquila che becca i ribelli.

Dante a Parigi appena legge il proclama, ridiventa fiorentino come quando nei comizi infiammava gli ascoltatori, il primo pensiero è ritornare, portare il suo aiuto, contribuire con le sue forze.

Gli italiani erano stanchi di lutti che da anni e anni infittiscono, si allargano, avanzano per i percorsi più intricati. All’annuncio dell’Imperatore scoppia la speranza che possa accadere, che la pace possa ritornare. Siamo nel Medioevo, l’Imperatore è l’inviato da Dio, e del resto il Papa, il Pontefice, è insieme a lui, ha dichiarato che lo benedice e lo incoronerà in San Pietro.

Dante come a Campaldino entra in battaglia, investe tutto sé nell’impresa di Arrigo. In fretta è arrivato nel Casentino. Si tratta di stimolare tutti alla lotta – con le lettere e con la presenza – tutti coloro che conosce e lo stimano, dai conti Guidi a Can Grande della Scala.

Finalmente Arrigo è partito. E’ in Savoia, entra ad Asti nel novembre 1310. A riceverlo, a fargli corona, i più bei nomi delle famiglie italiane, i Malaspina, gli Uberti, gli Scaligeri. Esiliati di ogni città e colore gli si inginocchiano.

Casale, Vercelli, Novara, Magenta si inchinano a lui, giurano fedeltà. Arriva a Milano dove si presentano a giurar fedeltà i cremonesi, i capitani di Lodi, quelli di Genova.

 I fiorentini no, non abboccano, non ci cascarono. Solo loro ebbero fin dall’inizio la testa chiara, la mente politica. Anzi sono loro i serpenti che tentano di soffocare l’Imperatore. E’ Firenze la sua nemica. Questa volta per Dante la lotta è disperata. E Arrigo si gingilla lassù, nel nord, indugia tra le città settentrionali invece di scendere al cuore, al centro della trama, a Firenze.

Finalmente eccolo, viene, arriva. L’Imperatore è a Pisa. Pisa la ghibellina che rimarrà sempre fedele all’Imperatore. Dante da diverso tempo si è trasferito a Pisa, che è una specie di quartier generale di tutti gli esiliati. Dante è segnato in volto, dalle deluse speranze, dalle tante passioni. Vive a Pisa in attesa, come altri esiliati e i giorni per un profugo sono lunghi ma la povertà e la sofferenza affratellano.

Ma una morte prematura tronca ogni speranza per Dante e tanti della penisola intera. La commovente ingenuità dura solo quattro anni. Arrigo annunciò la sua discesa nel 1309 e il 24 agosto del 1313 è disteso sul lettino da campo, immobile per sempre.

Quando i Neri di Firenze sanno della sua morte tripudiano, lo beffeggiano, irridono alla sua tedescheria. Pisa invece piange. Gli esiliati perdono l’ultima speranza.

Il corpo dell’Imperatore è portato in città, esposto, onorato, si decreta che venga seppellito in Duomo, dove ancor oggi riposa.

 

GUIDO NOVELLO E RAVENNA

Arrigo è morto e con lui le speranze. Dove andare ? a chi chiedere ? Di nuovo in Casentino ? Su a Verona ? coi Malaspina davanti alla Magra ?

Ancora una volta le stanze altrui, di nuovo essere ospite, essere al cenno del Signore.

Un certo Guido Novello da Polenta, uno dei tanti signorotti di quell’Italia, padrone di un rettangolo che comprendeva Ravenna, Cervia e Comacchio, e una frotta di paesucoli sparsi tra queste città, come seppe che Dante era in quella situazione gli inviò un messo, lo invitò alla sua Corte, a Ravenna.

Ravenna in quell’anno 1313 era un villaggio di poco più di seimila anime dove sospiravano grandi memorie: Teodorico e gli Ostrogoti, il maestro delle leggi Giustiniano, la dolce sovrana Galla Placidia, il barbaro Odoacre che Teodorico scannò insieme ai suoi. Una selva di vicende da quando Onorio trasferì da Milano a Ravenna la capitale dell’Impero romano di Occidente….

Vivevano anche in Ravenna la chiesa dello Spirito Santo, il Battistero, la Cattedrale, Sant’Apollinare in Classe, San Giovanni Evangelista, la basilica di San Francesco che presto avrebbe rintoccato proprio per lui, per Dante, l’ultimo addio. C’era la tomba di Teodorico premuta da un enorme sasso, da lui stesso predisposto, quasi quel saggio re desiderasse in eterno essere sordo ai vari rumori del mondo. Ma su tutti i monumenti trionfava il San Vitale.

Otto vigorosi pilastri sorreggevano la cupola creando il primo maestoso rimbombo che poi tutto all’intorno si ripercuoteva nei presbiteri, transenne, pulvini, amboni, serpeggiava nel ricamo delle esedre; un susseguirsi di echi, di luci, di spazi, mentre le pareti erano tempestate dalle intense pietruzze di Bisanzio a raffigurare i personaggi di quei secoli. Lo scintillio dell’Oriente sorretto e inquadrato dall’architettura romana.

Arrigo Morto, il sogno dell’Impero sfumato, il Pontefice può solennemente annunciare che – seggio imperiale vacante – è lui con naturalezza impugnare i due scettri, lui il Re dei Re, il Signore dei dominanti, lui padrone della carne e dello spirito.

Muore il 20 aprile 1314 anche Clemente V, chiazzato in viso per l’assassinio dei Templari, tappezzato di croste per i diversi vizi. Anche lui deve presentarsi all’eterno giudizio. E giunge un’altra notizia,questa volta beffarda: Filippo il Bello, che tutto era per la Francia, adoperato tutto a crescere la sua nazione, da un cinghiale è ammazzato, da una bestia che lo azzanna, gli struscia le setole sul muso, lo pesta con le zampe ferine.

Lui il Bello, il bellone, che per tutta la vita cercò sempre di scrollare da sé e dalla Francia il potere della Chiesa, l’antagonista di Bonifacio VIII, l’asservitore di Clemente V, il re che aveva trascinato la sede di Cristo da Roma ad Avignone, è stato ammutolito da un cinghiale, mentre era a caccia, in un bosco; la sua faccia tra le erbe insanguinata.

 

IL TEPORE DI UNA CASA

Finalmente Dante a Ravenna conosce la casa; è stato il buon Guido Novello a donargliela, uno dei modi per testimoniare stima e riconoscenza. La famiglia si è potuta riunire; prima è arrivata la moglie, la brava Gemma, i capelli inargentati; ad uno ad uno son sopraggiunti i figli, ormai divenuti uomini. L’apparizione più tenere è stata Antonia, unica figlia, che si muove leggere per le stanze.

Presto Antonia si spiegherà col padre, si avvicinerà allo scrittoio per confessare, mormorerà che vuol farsi suora, prendere il velo, entrare nel vicino chiostro di Santo Stefano. “Al monastero chiederò che mi diano il nome di Beatrice”. A questa notizia opposti sentimenti turbinano nel cuore del padre; perdere la figlia appena conquistata e intanto – sta pur scrivendo il Paradiso – ode la voce degli angioli, il canto col quale essi la accoglieranno.

 

VERONA DEL GRAN CANE

La sua fama echeggiava, oltre che poeta lo si nominava come teologo, astronomo, filosofo, padrone della retorica. Giungeva alla sua casa chi aveva sete di sapere, fame del pane degli angeli, e certi altri curiosi che sempre esistono. E ci sono gli inviti, i dotti di Mantova lo domandano, Bologna lo reclama. In quel tempo giuristi e governanti, politici ed affaristi amano rimare d’amore, si distende per tutta l’Italia la bellezza del volgare, cantare in italiano.

Il messaggio più bello gli venne da Verona, dal Cane, dal Gran Cane, il ghibellino che fronteggiava Roberto D’Angiò. L’invito del Cane fu il più bello.

Passarono insieme lunghe ore; il Cane confidava le sue meditazioni, le speranze di conquista, di gloria, di attuare l’Impero. Dante sosteneva ed arricchiva queste confessioni, ancora una volta si immedesimava, investiva quei temi della sua capacità trasfigurativa. Adesso aveva davanti a lui un vero politico, un capo, un guerriero, e come non abbandonarsi, non credere ancora una volta a ciò che in passato si immaginò con tale vivezza ?

Nacque fra i due un’amicizia, le ore insieme passate legarono i due uomini e Dante fu sempre grato in quegli ultimi anni di vita al Gran Cane che non solo l’aveva onorato alla sua Corte davanti ai migliori uomini di Europa ma era stato l’amico, l’intimo amico al quale si dicono i segreti pensieri.

Il Cane avrebbe voluto trattenerlo a Verona, presso di sé, ma Dante come può ? Quella corte è un luogo di feste non adatta alla meditazione, per il miracolo della poesia che non ammette distrazioni. A Dante necessita il silenzio di Ravenna.

 

L’ULTIMA AMBASCERIA

Un giorno il Maggior Consiglio di Venezia dichiara guerra a Ravenna. E a riprova di come si campava bene nel trecento, che bel visino avevano i vicinanti, immediatamente anche Ordelaffi di Forlì fece lo stesso; e così i ravennati se ne trovarono due alle costole. Due nemici che – anche presi uno alla volta – eran più forti di loro.

Guido Novello corre ai ripari; domanda consiglio e aiuto anche a Dante. Quante volte il poeta ha affrontato ambascerie ! Dante a Novello non dirà certo di no; andrà a Venezia a negoziare. E’ anche il suo interesse, ormai Ravenna la sua seconda patria.

Dante studia con gli altri dell’ambasceria le vie delle concessioni, come arrivare alla pace col minimo delle pene.

Dante ha qualcosa che lo distrae, lo angoscia. E’ la febbre, è la malaria. Resiste, deve fare il suo dovere, condurre come in passato secondo il suo intento, usare le sottigliezze, sorprendere, affascinare, sciogliere con soavità il negoziato, l’ambasceria, il diplomatico intrigo.

Gli stessi veneziani, i controbattitori, si sono accorti, forse hanno avuto civile pietà. Alighieri brucia nelle pupille e nella pelle, brucia della più maledetta malaria. Dopo una notte passata tra le fiamme, si asciuga i sudori e inizia il viaggio di ritorno.

La barca si stacca dalla banchina, ecco Malamocco e Palestrina; a seconda dei beccheggiamenti della barca quelle lingue di terra appaiono ora giardini dell’Eden o invece abbandonati cimiteri.

A Chioggia Dante è costretto a montare a cavallo; che stordimento e volontà. Perché arrivano così folti i ricordi del passato ? Dorme a Loreo, insieme alla cotonosa febbre che a tratti cade con copiosi sudori, e lo lascia nello spossamento.

Finalmente, mentre i raggi del giorno stanno inclinando, ecco l’abbazia di Pomposa. Rifrangono le maioliche della torre, le terrecotte; la chiesa con finestre e transenne è una eleganza. L’abbazia è un fortilizio che i benedettini difendono dalla malaria; con instancabile lena, con fanatismo, coltivano orti, piantano alberi, la circondano di verde. La palude intorno ghigna e vince, specie in quel mese di settembre alle prime fragorose piogge; le fosse, gli stagni, le pozzanghere si stanno riempiendo e i detriti, le melme che il secco  dell’estate aveva convertito in polvere, rigonfiano, rifioriscono, la uova maturano, si spaccano i gusci. Le zanzare con le loro nauseanti trombette sono l’esercito di quel regno.

Un altro giorno di viaggio per entrare nella sua casa, vicino alla vecchia Gemma, ai figli Pietro, Iacopo, alla figlia suora. Ecco Comacchio delle anguille, di nera terra, e infine infine la pineta di Ravenna, il verde mormorio dei pini, la purezza delle resine, i freschi canali, il fiume Padenna e già, senza quasi avvedersene, con scarsa nozione degli atti, è nella sua casa, tra le lenzuola, i visi dei familiari vicinissimi. Bello il silenzio rotto solo dall’umile sussurrio di chi lo assiste. La pace sta arrivando, quale serena visione di Firenze, la piccola San Martino presso casa sua, l’ombra della navata di San Pietro Scheraggio, i vicoli notturni quando vi arriva la luna.

I familiari si sono accorti che Dante è per morire. Stranamente il suo viso aveva ripreso i tratti giovanili.

Riconosce il francescano chiamato in fretta; già c’è l’accordo che lo seppelliranno nella vicina chiesa di San Francesco . Intravede Guido Novello, il notaio, giovani volti di allievi. Non esiste più alcun nemico, nessun avversario. Quante bambinesche giravolte fa l’Arno prima di arrivare a Firenze; deve spedire a Can Grande gli ultimi canti del Paradiso. Finalmente la pace. Neri e Bianchi sono laggiù, pallidi.

La figlia suor Beatrice accomoda le lenzuola. Ora Guido Novello gli sorride.Che dolce sonno. L’accoglienza di San Francesco.

“Non respira più” piange sommessamente la figlia.

Mai ci fu un volto così bello, insieme alla morte.

Era la notte tra il 14 e il 15 settembre 1321.       

             

           

        

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