Novembre 2012 Luchino Visconti

notizia pubblica il 17/11/2012 - ultimo aggiornamento del 17/11/2012

CASA CULTURALE DI SAN MINIATO BASSO

SEZIONE SOCI COOP DEL VALDARNO INFERIORE

 

NOVEMBRE  2012

 

LUCHINO VISCONTI

La vita del grande regista dai libri di

Gianni Rondolino e Laurence Schifano

 

L’infanzia e la giovinezza

Nato a Milano il 2 novembre 1906, quarto di sette figli, in una famiglia inflessibile nell’educazione, severità nel comportamento, ma al tempo stesso apertura mentale e curiosità intellettuale e culturale che forgiarono il suo carattere e diedero una particolare connotazione umana e sociale alla famiglia in cui visse.

            Il padre di Luchino discendeva dalla nobile famiglia che tenne per un paio di secoli la signoria di Milano e che aveva ereditato il titolo di duca di Modrone.

            La madre, Carla Erba, era figlia di Luigi, musicista di valore e cognato di Giulio Ricordi. Il fratello era Carlo Erba che aveva posto le basi della grande industria farmaceutica che porta ancor oggi il suo nome.

            La famiglia Visconti possedeva diverse unità immobiliari in Milano, una villa a Como ed una a Cernobbio. Avevano un palco fisso alla Scala e Carla suonava il pianoforte piuttosto bene.

            Dal matrimonio di Giuseppe e Carla nacquero Guido, Anna, Luigi, Luchino, Edoardo, Ida e Umberto ed ebbero tutti un’educazione severa sotto la guida vigile della madre.

            Donna Carla, all’inizio di ogni anno, compiva l’orario delle lezioni private e degli impegni extrascolastici, giorno per giorno, per ciascun figlio.

            La sveglia, anche d’inverno, era verso le cinque e mezza; dalle sei alle otto, a turno, si svolgevano le lezioni di pianoforte; poi dalle otto e mezza all’una e mezza c’era la scuola e, al pomeriggio, due ore di ginnastica, sia nella palestra familiare , sia fuori all’aperto; successivamente si dovevano fare i compiti di scuola, e infine , per Luchino , un’ora e mezza di violoncello (gli altri fratelli studiavano, Guido e Luigi, il pianoforte; Anna e Edoardo, il violino)

            Sullo sfondo di questa giornata cadenzata dalle ferree leggi di un impegno costante per l’acquisizione di un’educazione completa, che facesse di questi ragazzi, a quanto pare vivacissimi, estrosi e intelligenti, degli uomini forniti di qualità indispensabili per dominare la realtà e controllare criticamente la propria personalità, si svolgevano poi i giochi, i divertimenti, le intese reciproche che univano strettamente i fratelli e le sorelle.

Una natura ribelle

            La musica dominava in larga misura l’educazione di Luchino che suonava molto bene il violoncello ma all’educazione al pericolo, al piacere della lettura e del teatro, si riscontra in lui un ribellismo, una insofferenza alle regole codificate dall’ambiente familiare, che non si riscontrava negli altri fratelli e sorelle.

Questa irrequietezza si manifesta in una serie di fughe da casa. Una prima fuga a Roma, per inseguire una ragazza, si conclude comicamente , perché Luchino incontra quasi subito suo padre in un ristorante. Dopo una seconda fuga il padre manda il fratello Guido a riprendere il fuggitivo, e lo rinchiude in un collegio retto dai padri calasanziani. E da qui Luchino scappa di nuovo. Il conte  padre lo manda allora a lavorare in una azienda familiare, ma il risultato non è felice; i dirigenti della fabbrica lo allontanano, sostenendo che crea un diffuso stato di anarchia.

Ciò che conta per noi è constatare che Luchino che mal tollerava la disciplina alla quale era sottoposto, riuscì a formarsi quella grandissima cultura e di temprare quella volontà che tanto gli serviranno molti anni dopo nell’esplicazione del suo lavoro creativo, in teatro come nel cinema.

Legatissimo alla mamma

            Dell’amore reciproco di Luchino per sua madre si hanno tante testimonianze e lui stesso ebbe a dire una volta: ”La mamma era, con noi, di una bontà sconfinata: Stabilimmo un patto, io e lei : se fosse accaduto qualcosa di grave, ed io fossi stato lontano, mi avrebbe atteso. Arrivai al sua capezzale in tempo per sentire il mio nome sulle sue labbra”.

Una religiosità profonda

            In casa Visconti, nonostante la mondanità della vita di relazione, l’apparente frivolezza dei rapporti sociali, accanto alla rigida educazione impartita ai figli non mancò una parallela educazione religiosa, forse meno rigida ma non meno profonda.

            A Costanzo Costantini che una volta lo interrogava sull’argomento Luchino ebbe a dire : “Sì, ho sempre creduto, sin da bambino. Sono stato educato cattolicamente. Non sono un baciapile, no, certo. Non sono cattolico in senso osservante. Ma credo in Dio. Credo in una entità, o in qualcosa fuori di noi, o che è dentro di noi, in noi stessi. Credo in una forza misteriosa più grande dell’individuo. Ma non è da escludere che l’individuo sia altrettanto grande che quella forza. In altri termini, non ho la concezione del Dio cattolico. Credo perché se non si credesse sarebbe inutile vivere. Non sono ateo. Non lo sono mai stato e non lo sarò mai. Se fossi ateo mi sentirei infelicissimo”

            Allevatore di cavalli

            Luchino Visconti non concluse il ciclo regolare degli studi a causa della sua insofferenza e irrequietezza già accennata e si trovò sula soglia dei venti anni con una buona cultura di base, soprattutto con un grande amore ed interesse per il teatro, la musica e la letteratura.

            Da qui i tentativi dei genitori di inserirlo nell’attività industriale e commerciale familiare e la decisione di anticipare il suo servizio militare.

            Nel 1926 viene arruolato come soldato semplice presso il distretto militare di Milano e passa successivamente al Reggimento Savoia Cavalleria.

            Tornato a casa, la sua nuova grande passione lo spinse a dedicarsi all’allevamento dei cavalli da corsa e il suo impegno d’allevatore è sin dall’inizio serio ed approfondito.

            Nel 1931 vende i suoi primi cavalli e ne acquista sette nuovi. Federico Tesio gli riconosce subito competenza ed alta professionalità, e di lui si parla in Italia e all’estero.

            Nell’allevamento dei cavalli e nell’arte equestre sembra sia riuscito a concentrare, con ottimi risultati, le diverse componenti del suo carattere volitivo e della sua complessa personalità. E sebbene il teatro e la letteratura continuino a suscitare il suo interesse, l’arte e la musica siano pur sempre gli incantamenti del suo spirito, è il suo lavoro quotidiano in scuderia che riempie ormai la sua giornata e la sua vita.

            Viveva giorno e notte in mezzo ai cavalli; come alla vigilia di ogni corsa aveva dormito nel box di Sanzio, così ora aveva casa ed ufficio a San Siro, tra le scuderie. Si alzava ogni mattina alle tre per dirigere personalmente gli allenamenti, studiava incroci, ogni anno si recava in Inghilterra per acquistare alle famose aste di New Market le rinomate fattrici.

            La strada del cinema

            Avvicinandosi ai trent’anni, con un intenso passato di sperimentazioni, di tentativi, di prove nei vari campi dell’arte e della cultura, sia pure in una dimensione dilettantesca, si faceva sempre più impellente il desiderio di diventare, proprio in quei campi, come lo era divenuto nell’ippica, un professionista.

            Nel 1934 vende una parte dei cavalli della sua scuderia e a poco a poco perde interesse per l’ippica sino alla definitiva liquidazione di ciò che resta del suo allevamento nel 1941.

            Attorno al 1930, insieme all’amico Livio dell’Anna, si ha il debutto si Luchino Visconti come drammaturgo con il lavoro “Il gioco della verità”.

            Nel 1928 aveva collaborato all’arredamento scenografico della “Moglie saggia” di Goldoni, messa in scena dalla Compagnia del Teatro dell’Arte di Milano, finanziata dal padre.

            Nel 1936 e 1938 curò la messa in scena di “Carità modana” di Giannino Anta Traversi e di la “Dolce aloe” di Jay Mallory e anche, senza firmarlo, di “Viaggio” di Henry Bernstein”.

            Il teatro, o meglio la messa in scena, richiede una buona conoscenza della letteratura drammatica e l’assidua frequentazione dei palcoscenici, una discreta cultura di ambientazione, un gusto preciso nella scelta degli arredi e dei costumi, in una parola una padronanza assoluta degli ambienti in cui collocare fatti e personaggi. E questa padronanza  Visconti l’aveva in sommo grado :  abituato egli stesso non soltanto a vivere da lungo tempo in case arredate con raffinatezza e magnificenza, ma anche a contornarsi di oggetti da lui scelti ed acquistati secondo gli intendimenti d’un gusto che possiamo definire infallibile.

Una volta Luchino aveva detto ad un amico: “Quando ero giovane, ero attratto dal cinema più che dal teatro, ma come scenografo piuttosto che come regista” . Dove si ha una conferma delle sue predilezioni per gli ambienti e per la loro definizione scenografica.

A Forte dei Marmi Visconti reciterà alla presenza dei Savoia con la bellissima Nicoletta Arrivabene (Niki) e la sorella Madina, due bellissime ragazze dell’alta borghesia romana. Le amicizie si tramutano in legami di parentela, forse non proprio come avrebbe desiderato Luchino. Infatti Luchino Visconti era innamorato della Niki ma la stessa sposerà suo fratello Edoardo. E Madina sposerà l’altro fratello Luigi. 

E fu proprio la bella Niki a dirgli insistentemente che i cavalli non potevano essere la sua unica occupazione: anche se lo impegnavano totalmente, non potevano soddisfarlo intellettualmente. Egli avrebbe dovuto dedicarsi alla letteratura o al teatro, impegnarsi in un lavoro che poteva sfruttare appieno le sue grandi capacità intellettuali e la sua profonda cultura umanistica. Quando cominciò a realizzare il suo primo film, Luchino le avrebbe detto : ” Avevi ragione tu: ho finalmente trovato il mio mestiere”.

Un amore a Kitzbuhel

Nella famosa stazione invernale di Kitzbuhel nacque l’amore di Luchino per Irma (Pupe) Windisch-Gratz, che proveniva da una ricca famiglia aristocratica austriaca.

L’amore avrebbe dovuto concludersi con un matrimonio - che, tra l’altro, avrebbe risolto una situazione spiacevole, dato che Luchino pare fosse ancora innamorato della bellissima cognata Niki - , ma invece le cose andarono diversamente.

Il padre di Pupe non acconsentì al matrimonio perché Luchino, nonostante fosse ricco ed aristocratico, non possedeva un “mestiere” e non poteva garantire, secondo la sua prospettiva conservatrice, un avvenire solido alla figlia.

Quell’amore influì notevolmente sulla vita di Visconti e lasciò una traccia non superficiale, se è vero, come è vero, che a distanza di oltre venticinque anni egli dedicherà a Irma Windisch-Gratz (Pupe) il breve film “Il lavoro” la cui protagonista si chiama appunto Pupe ed è interpretata da Romy Schneider, un’attrice austriaca che, secondo Visconti, somigliava molto a quella che aveva conosciuto in gioventù.

La sua “via di Damasco”

Nel 1936, di ritorno da New York, Luchino Visconti è invitato a Roma a colazione dalla viscontessa Marie-Laure Noailles e conosce nella sua villa il giovane Horst, biondo, con occhi chiari e sorridenti, che parla con accento tedesco che ricorda la sua nascita e la sua infanzia in Turingia.

I due uomini si scambiano qualche parola davanti al grande camino acceso, sufficienti perché fra il “tedeschino” dal viso volitivo e il bel tenebroso italiano nasca un’attrazione immediata, prepotente.

Horst racconta di Luchino : “Non si faceva avanti, non sorrideva facilmente e sembrava frenare senza tregua il suo temperamento latino …. Oscuramente, ero sicuro che era attratto da me. Aveva un non so che di misterioso, un che di vicino e distante al tempo stesso”.

Il giorno successivo erano insieme al bar Crillon, fecero colazione e Luchino si trattenne nel suo albergo per altre due settimane invece di partire subito come aveva programmato e come aveva detto alla signora Noailles. E si videro tutti i giorni.

A quell’epoca, sempre secondo la testimonianza di Horst, Visconti accettava a fatica la propria omosessualità, temeva i pettegolezzi; durante i tre anni della loro relazione, interrotta da numerose separazioni, si sforzò di tenerla segreta.

Obbligato ad andare spesso negli Stati Uniti per lavoro, Horst non passò mai lunghi periodi con Visconti; tuttavia, dirà, “per un fatto strano, i nostri rapporti ne acquistavano in profondità”.

Dopo l’inizio della guerra i due non si vedranno più per oltre dieci anni.

Un giorno del 1953 Visconti viene a sapere che Horst si trova all’Hotel Excelsior di Roma. Lo invita subito a casa sua, in via Salaria : “E’ chiaro” , osserva Horst, “che non eravamo più giovani, e nel frattempo avevamo fatto due vite molto diverse. Tuttavia fu come se il tempo non fosse passato. Non ci dicevamo gran che, ma fra noi c’era singolare connivenza”.

La matura e innamorata Coco Chanel

Una donna che aveva soltanto tre anni meno di donna Carla, la mamma di Luchino, diventerà per lui tutto in una volta una consigliera, una innamorata appassionata, una seconda madre, più dura, meno femminile ma altrettanto forte, energica, realistica e combattiva della prima.

Essa diceva : “Io sono innamorata o non lo sono”.

E si innamora di Visconti perché è su misura per il suo carattere, con i suoi eccessi, i suoi slanci generosi, la sua sincerità brutale, a volte grossolana, la sua smania di assoluto, la sua intolleranza.

Horst disse una volta: “Non è possibile essere più affascinati di quanto lo era Chanel da Luchino. Lui esitava. Lei era folle di lui e lo stordiva di parole”.

Della lunga e fedele relazione tra Coco Chanel e il fratello, Uberta Visconti ci dice: “Non credo che siano stati più che amici. Lei sì, era molto presa da Luchino. Lui fu sedotto soprattutto da quel carattere molto forte: di una donna d’azione, che lavora”.

Lei, come Visconti, detestava il dilettantismo, imponeva alle sue duemila indossatrici una disciplina ferrea, non perdonava un cedimento, una bocca imbronciata, i capelli in disordine, un passo troppo rapido.

 

Con Renoir

Coco Chanel disse a Parigi all’amico Luchino Visconti : “Se vuoi conoscere una persona molto seria che si occupi di cinema te la farò conoscere io: E’ un mio amico, si chiama Jean Renoir”.

Renoir stava preparando il film “Une partie de campagne” . Visconti fu assunto come suo terzo assistente.

Luchino si occupò dei costumi e svolse una reale funzione di assistente. Ebbe inoltre lunghe conversazioni con Renoir che gli aprirono non pochi orizzonti sul cinema come linguaggio e arte di collaborazione ed entrò in stretto contatto con rappresentanti di quella intellettualità antifascista che stava vivendo in quel periodo l’esaltante esperienza del Fronte Popolare. Fu un’esperienza doppiamente importante, sul piano professionale e di scelta del proprio futuro, e sul piano ideologico, di apertura verso la realtà sociale e politica di cui, sino ad allora, egli si era interessato poco o nulla.

Il sodalizio con Renoir, anche se di breve durata e limitato forse meno a una stretta collaborazione tecnica e professionale che a un rapporto intellettuale ideologico, fu indubbiamente il punto di non ritorno dell’esperienza esistenziale di Visconti, il suo passaggio dal dilettantismo al professionismo.

Caterina D’Amico de Carvalho scrive su quel periodo di Visconti: “ Il contatto con i collaboratori di Renoir, tutti più o meno legati al Partito Comunista Francese, ha fatto scoprire a Visconti le dimensione politica della realtà. Anche i viaggi in Grecia e negli Stati Uniti che Visconti fa tra il 1937 e il 1938 non sono semplici viaggi di piacere, ma occasioni di conoscere e di approfondire realtà, panorami, culture diverse e stimolanti”.

 

Il primo film

Il primo film come professionista è la collaborazione con Renoir nel lavoro “Tosca”, prodotto in corrispondenza dell’entrata in guerra dell’Italia. Uscirà solo nel 1941e la critica sarà abbastanza severa. Questa fu l’occasione per Luchino di farsi notare nell’ambiente cinematografico romano, ed è a lui che si rivolgeranno gli amici di sinistra per realizzare quello che può essere definito il primo film, almeno nelle premesse e nelle intenzioni, autenticamente antifascista : “Ossessione”.

Fu la presenza a Roma di Renoir a far incontrare Visconti con De Santis, Alicata, i fratelli Gianni, Dario e Massimo Puccini, Pietro Ingrao, Umberto Barbaro e Rudolf Arnhein che era il nume tutelare della teoria cinematografica italiana.

Era stato soprattutto Pietro Ingrao che conosceva da lunga data Gianni Puccini ad avviare alla politica questo gruppo di giovani intellettuali. L’amore per l cinema, la passione per la letteratura e per la storia, l’insofferenza per il conformismo imperante e il provincialismo culturale del fascismo, li portò ad unirsi, a discutere fra loro e prendere posizione contro il governo di quei giorni.

Il maggior interesse del gruppo e dello stesso Visconti si avrà per le opere di Verga e fu “L’amante di Gramigna” il soggetto della prima vera e propria sceneggiatura di Luchino presentata al Ministero affinché concedesse l’autorizzazione a girarne un film.

Non mancarono pressanti interferenze politiche durante la lavorazione del film “Ossessione” e dopo l’arresto di Alicata e Puccini la polizia tenne sotto controllo Visconti e il suo gruppo nei mesi in cui si procedeva all’edizione definitiva del film. Questo lavoro non uscì a Roma nelle sale cinematografiche pubbliche ed ebbe una vita molto difficile.

 Il luogo dell’azione del film è la bassa padana, o meglio una trattoria isolata ai margini di una strada camionabile, in cui vivono Giovanna, una bella giovane donna dal passato torbido, e Giuseppe Bragagna, suo marito, molto più vecchio di lei, che la “usa” più come serva che come moglie. In questo ambiente alquanto sordido e al tempo stesso banale e quotidiano capita improvvisamente un vagabondo, Gino Costa, di cui si invaghisce Giovanna e con cui vorrebbe fuggire. In realtà ella ama troppo la tranquillità economica e la sicurezza sociale per rischiare l’avventura, e lui è troppo incostante, debole e appunto “vagabondo” per accettare una diversa soluzione. I due protagonisti sono coinvolti nell’omicidio di Bragagna e poi nei sospetti reciprochi e la fuga finale, con la morte accidentale di Giovanna e l’arresto di Gino. Una vicenda che era nata e si era sviluppata all’insegna della negatività e della tragedia.

Verso un teatro totale

Dopo il 23 marzo, giorno dell’attentato di via Resella, la situazione a Roma si fa estremamente pericolosa, gli arresti e le perquisizioni sono quotidiani.

Chiari fu arrestato in casa di Visconti il quale si trovava in casa della sorella da cui fuggì immediatamente non appena comprese il pericolo che stava correndo. Rifugiatosi in casa di Carlo Novaro vi fu arrestato il 15 aprile e condotto alla Pensione Jaccarino, dove già era rinchiuso Franco Ferri. Anche Gianni e Dario  Puccini con Rinaldo Ricci finirono in carcere, a Regina Coeli.  Alicata era già in carcere da tempo.

Tutto il gruppo degli amici antifascisti di Luchino Visconti, in pochi giorni, finì in carcere.

Finalmente il 4 giugno 1944 gli anglo-americani entrano in Roma. E’ la liberazione !   Anche Visconti, come molti suoi amici e compagni, esce di prigione.

Comincia allora un nuovo periodo della sua vita e della sua attività artistica: un periodo di straordinaria creatività e impegno, in cui egli ha modo di esplicare le sue più vere e genuine qualità poetiche.

Il primo progetto di film dopo la liberazione fu “Pensione Oltremare” dove si descrive la storia tragica di un giovane, arrestato casualmente a Roma dalla polizia fascista, rinchiuso in Pensione Oltremare a contatto con resistenti e antifascisti, ai quali vengono inflitte torture d’ogni genere, che acquista a poco a poco una coscienza politica che gli consente di comprendere la logica aberrante secondo la quale egli sarà trucidato alle Fosse Ardeatine.

L’altro film di quei giorni fu “Il processo di Maria Tarnowska” e invece al teatro Luchino esordisce sul palcoscenico come regista di “Parenti terribili” di Jean Cocteau.

Visconti si occupava prevalentemente in quei giorni di teatro e infatti portò sul palcoscenico  “La via del tabacco” di Erskine Caldwell, ma non rinunciò a realizzare un documentario sulla Resistenza con il film “Giorni di gloria”.

Seguirono per il teatro i lavori: “Quinta colonna” di Ernest Hemingway, “La macchina da scrivere” di Jean Cocteau, l’”Antigone” di Jean Anouilh, “A porte chiuse” di Jean-Paul Sartre e  “Adamo” di Marcel Achard.

Visconti seppe imporre la sua forte personalità, la sua concezione totalizzante dello spettacolo, non certo occasione di svago e di divertimento, ma esperienza concreta di vita, luogo d’incontro e di scontro sui vari piani dell’esistenza.

Non fu soltanto un nuovo modo, almeno per l’Italia, di fare teatro, ma anche la sperimentazione e la realizzazione di un vasto progetto artistico e culturale in cui lo spettacolo doveva assumere la funzione e il significato di una vera e propria “concezione del mondo”.

La sua non fu una nuova “scuola” teatrale, ma un’opera autonoma, irripetibile: non ebbe, in altre parole, allievi, né aprì sostanzialmente strade percorribili.  

Attestazione di fede comunista

La sua presa di posizione netta e precisa nei confronti della situazione politica italiana Visconti la testimonia con quanto dichiarò dalle colonne dell’Unità il 12 maggio 1946:

“Siccome noi ci avviamo verso una forma di Stato che non può essere di tipo socialista, per un cumulo di ragioni storiche, economiche, politiche, ed essendosi l’istituto monarchico dimostrato nient’altro che l’ultimo “veicolo” dei germi fascisti, ecco che io scelgo: repubblica e repubblica parlamentare, così come la propose nel suo chiaro programma il Partito Comunista”.

“E’ un programma, quello comunista, che si accorda con una visione della vita e aspirazioni che porto in me da molto tempo: di giustizia , di onestà, di equità, di rapporti umani, di diritto alla vita attraverso il lavoro. Queste aspirazioni, che in verità sono di molti, isolate, si sperdono, raccolte, coalizzate intorno a un programma preciso diventano una forza, la garanzia di una lotta feconda che la realizzi. A questa lotta credo di collaborare, per quello che è il mio ambito, col mio lavoro, e così intendo continuare nel futuro. Io vedo per l’arte, nel comunismo, una grande occasione di umanità e di libertà e mi batto per l’una e per l’altra. Non credo affatto che occorre essere piatti e rigidi in un ossequio formale alla dottrina. Sento, anzi, vivo il lievito del comunismo a spingere l’artista verso la realtà, a cogliere la vita più vera, a conoscere ed esaltare le sofferenze dell’uomo. Questo per me è l’arte: messaggio di vita agli uomini, ed è in una società di uomini liberi che essa troverà la garanzia di un fecondo fiorire”.

La terra trema

Scriveva Luchino Visconti alla fine del 1947 al montatore di scena Mario Serandrei:

“E’ vero, non potevo scegliere niente di più difficile come ritorno al cinema. Ma d’altra parte non si sta lontani dal cinema quasi sei anni per ritornarvi, senza proporsi di dire qualche cosa di nuovo. Proporsi, dico. Riuscire a dirlo, è un altro affare. Vedremo dopo”.

In principio Visconti aveva intenzione di fare non uno, ma tre film : uno sui pescatori, uno sui contadini e uno sui minatori. Tutti e tre in Sicilia, sulla Sicilia. Tutti e tre, aspetti diversi della stessa lotta di esclusi contro le avversità degli uomini e delle cose.

Il film “La terra trema” fu presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia ( dove vi ottenne un premio internazionale “per i suoi valori stilistici e corali” ) suscitando forti reazioni da parte del pubblico e della critica.

Si scatenò una vera e propria bagarre con interventi e pressioni affinchè il film non uscisse nelle sale cinematografiche. Solo un paio d’anni dopo, nel maggio del 1950, esso entrò nel circuito cinematografico italiano, sia pure in edizione ridotta e doppiata in lingua, ma ebbe vita breve e scarsissimo successo. Si trattò, insomma, di una vera e propria battaglia politico-ideologica che vide schierati, dalle due parti, i rappresentanti della cultura progressista e di quella conservatrice o reazionaria, con lo scopo, più o meno dichiarato, di fare del film di Visconti un casus belli.

Il film narra delle prime, livide, avvisaglie di un conflitto di classe che scoppierà sulla spiaggia, quando ‘Ntoni e i suoi amici e compagni decideranno di opporsi alle vessazioni dei grossisti del pesce. Da questo conflitto matura la decisione di ‘Ntoni di mettersi in proprio; ma le cose vanno male, una tempesta di mare si porta via la sua barca, egli è costretto a tornare a lavorare per i grossisti, e intanto la sua famiglia si è disgregata. ‘Ntoni è un vinto, un isolato; forse soltanto l’esperienza  potrà suggerirgli che ha perso perché era un isolato.

Il secondo episodio si contrappone al primo per un maggior “ottimismo”, per quella speranza che nasce negli oppressi dall’essersi ribellati e dall’aver costituito – ciò che ‘Ntoni non riuscì a fare – una vera solidarietà di classe. Il protagonista della storia è Cataldo, un giovane minatore, che – di fronte alla chiusura forzata e ingiustificata della miniera di zolfo presso cui lavorava – riesce a creare una cooperativa di minatori che gestirà, fra speranze e delusioni, una miniera abbandonata.

Il terzo episodio ruota intorno al tema dello sfruttamento dei contadini da parte dei latifondisti , dell’occupazione delle terre, della presa di coscienza dei braccianti che viene violentemente contrastata dalle forze conservatrici, politiche ed agrarie, con la strage sanguinosa dei rivoltosi durante una grande festa di popolo : con esplicito riferimento alla strage di Portella della Ginestra, compiuta dal bandito Giuliano il 1° maggio 1947.

Fra cinema e teatro

Nel 1948, mentre ancora stava accudendo al montaggio della “Terra trema”,  Visconti riuscì a realizzare al Giardino di Boboli a Firenze il testo di Shakespeare “Troilo e Cressida”.

A Roma invece mise in scena “Rosalinda- Come vi piace” pure essa di Shakespeare.

Gli altri spettacoli teatrali che dirigerà negli anni seguenti sono:

“Un tram che si chiama desiderio” di Tennessee Williams”.

“Oreste” di Vittorio Alfieri.

“Morte di un commesso viaggiatore” di Arthur Miller.

“Il Seduttore” di Diego Fabbri.

“La Locandiera” di Goldoni.

“Le tre sorelle” di Cecov.

“Medea” di Euripide.

“Cronache di poveri amanti” di Vasco Pratolini.

“IL prurito” di Carlo Levi.

“Carrozza del Santissimo Sacramento” di Prosper Mèrimèe.

Marzia nuziale” di Suso Cecchi D’Amico.

Un film : “Bellissima”

Il vero tema del film non è, quale risulta dal soggetto di Zavattini, la fragilità e l’inconsistenza del mondo del cinema, che attrae le folle e si impone sulle anime semplici per la forza delle speranze che fa nascere, in contrapposizione ai valori reali d’un rapporto umano, quale si stabilisce fra due esseri che si amano e si comprendono e all’interno di una famiglia concreta. Il vero tema è la complessità umana del personaggio, calato in un ambiente non suo, estraneo ed ostile, e osservato nelle sue reazioni.

Luchino disse che “Il vero soggetto era la Magnani: volevo tratteggiare con lei il ritratto di una donna, di una madre moderna e credo di esservi riuscito abbastanza bene, perché la Magnani mi ha prestato il suo enorme talento, la sua personalità. Questo mi interessava e in minor misura l’ambiente del cinema. Si è detto che avevo volto rappresentare questo ambiente in modo ironico, cattivo; no, questo non fu che una conseguenza”.

”Senso”

La genesi di “Senso”, la cui gestazione, lavorazione ed edizione definitiva occupò Visconti per oltre un anno, è molto indicativa tanto del metodo di lavoro viscontiano quanto del clima politico e culturale in cui il film nacque.

Di fatto “Senso” fu il primo film di Visconti che incontrò i favori del pubblico, ma al tempo stesso –come era avvenuto per le sue precedenti opere cinematografiche e teatrali-

costituì un nuovo casus belli che vide schierate, su due fronti, le forze agguerrite dei sostenitori e dei detrattori.

            “Senso” si impose fin dall’inizio della progettazione come un’opera di grande respiro artistico e culturale, attentamente studiata e accuratamente preparata: un’opera che avrebbe offerto a Visconti l’occasione per rappresentare compiutamente i personaggi e gli ambienti che meglio riflettevano la sua cultura, la sua visione critica del reale, i suoi intendimenti spettacolari.

            Il film vuol essere il ritratto sfaccettato ed inquietante, nella sua fredda “obiettività”, d’una donna dell’aristocrazia veneta, bella ed altera, adultera, amante d’un giovane ufficiale austriaco, che alla fine denuncia e fa uccidere per gelosia.

            Il tenete austriaco Franz Mahler, e la contessa veneziana Livia Serpieri, adulteri e traditori, sono figure di un mondo in decadenza. Lui è un cinico crudele, interiormente disfatto, che tenta di attaccarsi alla vita in tutti i modi, al di là di ogni scrupolo; lei è la romantica ma senza solida consistenza morale, o così si illude che sia. Quando ha la sensazione che Franz ha sfruttato il suo amore e la sua posizione sociale per dare sfogo alla sua bestialità, Livia si atteggerà a giustiziera, ma in realtà compirà una vendetta suggeritale dall’amor proprio ferito.

            Qualunque forma di spettacolo creasse Visconti, era sempre anche spettacolo musicale. Ebbene, in “Senso”, più che negli altri film viscontiani , il rapporto con la musica raggiunge un livello espressivo notevolissimo. Il fatto è che la profonda cultura musicale in Visconti, la sua conoscenza puntuale e precisa di autori e musiche d’un vasto repertorio tanto sinfonico e da camera quanto operistico, lo spinsero fin dagli esordi, in cinema e teatro, a impiegare la musica non solo come “accompagnamento” dell’azione scenica, ma anche e soprattutto come definizione sonora dell’ambiente e dei personaggi.

Il melodramma

            A Milano la “Vestale” di Spontini non fu accolta con molto favore: Visconti era accusato di aver stravolto il melodramma italiano e di aver sottomesso la musica alle ragioni dello spettacolo.

            Lo stesso anno, con supervisore Visconti, andò in scena la rivista “Festival” di Age, Scarpelli, Verde e Vergani.     Fu una parentesi , meglio ancora una divertente e divertita pausa di lavoro per Visconti che stava allestendo la messinscena di “Come le foglie” di Giuseppe Giacosa.

            Nell’arco di soli sei mesi Luchino mise in scena ben tre opere liriche: “La Traviata” di Verdi, la ”Vestale” di Spontini e “La Sonnambula” di Bellini.

            Nel 1952 mette in scena “Cagliostro” di Pizzetti e “L’incoronazione di Poppea” di Claudio Monteverdi. L’anno successivo a Firenze per il Maggio Musicale mise in scena la “Forza del destino” di Verdi. Alla Scala “Il Trovatore”

            Alla Piccola Scala di Milano fu la volta del “Falstaff” di Verdi e “Mario e il mago” su libretto dello stesso Visconti tratto dall’omonimo racconto di Thomas Mann.

Maria Callas

      Di questa grandissima cantante sentiamo cosa disse lo stesso Luchino:

“Ero un suo ammiratore da parecchi anni, fin da quando aveva cantato nel Parsifal e nella Norma a Roma. Ad ogni replica prenotavo un palco ed applaudivo come un matto. Le mandai dei fiori e infine ci incontrammo. Era grassa, ma in scena bellissima. Mi piaceva la sua grassezza, che la rendeva così imponente. Già allora era un fenomeno, la sua presenza scenica era elettrizzante. Dove aveva imparato ? Evidentemente da sola. Ma con “La Vestale” cominciai sistematicamente a perfezionare la sua mimica. Oggi qualche cantante cerca di imitare il gesto callasiano, ma è una follia: con il suo lungo collo, il suo corpo, le sue braccia, le sue dita, Maria era inimitabile. A un certo punto sembrava si fosse innamorata di me: era una sciocchezza, tutta nella sua testa”.

Cenno sulle opere liriche dirette negli anni ’60-70

            “Il cavaliere della rosa” di Richard Strauss al Covent Garden di Londra - “Anna Bolena” di Donizetti  alla Scala – “La traviata” di Verdi  al Covent Garden – “Ifigenia in Tauride” di Gluk alla Scala  – “Don Carlos” di Verdi al Covent Garden – “Macbeth” di Verdi a Spoleto – “Il duca d’Alba” di Donizetti  a Spoleto – “Salome” di Strauss  a Spoleto – “La Traviata” di Verdi  a Spoleto – “Le nozze di Figaro” di Mozart  al Teatro dell’Opera di Roma – “Il trovatore” di Verdi  al Teatro Bolscioi di Mosca – “Don Carlos” al Teatro dell’Opera di Roma – La “Maratona di danza”, balletto alla Stadtische Oper di Berlino – “Il diavolo in giardino” su musiche di Franco Mannino.

Miller, Cecov, Strindberg in teatro

            La lucidità scenica di interpretazione di Luchino Visconti nelle opere liriche si ritrova, in quegli anni, anche negli spettacoli di prosa di cui riportiamo i più significativi:

            “Il crogiuolo” di Arthur Miller  al Teatro Quirino di Roma – “Zio Vania” di Anton Cecov al Teatro Eliseo di Roma – “Contessina Giulia” di August Strindberg al Teatro delle Arti di Roma – “L’impresario delle Smirne” di Carlo Goldoni al Teatro La Fenice di Venezia – “Uno sguardo dal ponte”  di Arthur Miller al Teatro Eliseo di Roma – “Veglia la mia casa, Angelo” di Ketti Frings al Teatro Quirino di Roma – “Deux sur la balancoire” di William Gibson a Parigi – “I ragazzi della signora Gibbons” di Glickman al Teatro Eliseo di Roma – “Figli d’arte” di Diego Fabbri

            Alcune opere minori

            “Le notti bianche” come gli altri film tipo “Vaghe stelle dell’Orsa…..” , “Lo straniero” sono da considerarsi opere minori ma per esempio “Le notti bianche” , girato a Livorno ottenne, il Leone d’argento alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia ed è famoso per la cura della fantastica illuminazione delle scene nella nebbia notturna.      

Rocco e i suoi fratelli

Questo film fu presentato alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia fra molteplici dissensi e contestazioni nonostante l’accoglienza estremamente positiva che aveva avuto dalla stragrande maggioranza della critica italiana e straniera.

            I temi di questo film nascono e si sviluppano attorno alla storia di una famiglia di lucani – la vedova Rosaria ed i suoi cinque figli – inurbatisi a Milano alla fine degli Anni Cinquanta in cerca di lavoro, e all’impatto drammatico che la grande città del Nord ha sulla compatta ma sostanzialmente fragile struttura familiare, inadatta a reggere le tensioni della società industriale e neocapitalistica.

”L’Arialda”

            L’”Arialda” andò in scena al Teatro Eliseo di Roma il 22 dicembre 1960.

            La Storia è tutta centrata nel personaggio della protagonista : una zitella ingannata che vive ai margini della civiltà, nella squallida periferia milanese, contornata da uomini e donne che paiono dominati totalmente dal sesso ;  non tanto si affida alle azioni, ai fatti e agli accadimenti drammatici, quanto alla situazione, alla durata di una condizione umana e sociale che non pare possa offrire soluzioni positive.

 

”Il lavoro”

            Nel film “Il lavoro” che narra del rapporto fra due giovani aristocratici, il milanese conte Ottavio e la moglie austriaca Pupe, che si fa pagare dal marito le sue prestazioni erotiche dopo che egli è stato coinvolto in uno scandalo di “ragazze squillo” da un milione di lire ciascuna, non mancano gli elementi autobiografici, sia pure stravolti da una sottile ironia e osservati con quello sguardo lucido e distaccato che è proprio del miglior Visconti (basti ricordare che Pupe è il nome della ragazza austriaca che egli amò e doveva sposare quando aveva trent’anni).

            Il tema della mercificazione dei rapporti erotici, dello svuotamento dei sentimenti nella reificazione dell’uomo, non soltanto costituisce la struttura portante della rappresentazione, l’unico motivo drammaturgico, ma anche si colora d’una tensione melanconica, di un vero disagio esistenziale.

”Il Gattopardo”

            Uscito postumo nel 1958, “Il Gattopardo”, di Tommasi di Lampedusa suscitò al suo apparire un interesse per certi aspetti eccezionali.

Nel libro veniva trattato del Risorgimento mancato e della Rivoluzione tradita, elementi che il romanzo riproponeva in termini espliciti, venato di pessimismo, d’un certo cinismo  e d’un disincanto prettamente siciliano con la rappresentazione d’un mondo in declino e il sorgere di una nuova società vista in termini alquanto critici.

            Certamente la materia narrativa del “Gattopardo” offriva numerosi spunti per un grande affresco storico-sociale: la decadenza d’una classe, l’aristocrazia fondiaria incapace di reggere il confronto con la nuova borghesia imprenditoriale, sullo sfondi d’una Sicilia percorsa dai fermenti rivoluzionari del Risorgimento e dell’impresa garibaldina; e anche l’ascesa di una nuova classe pronta a sfruttare la situazione potenzialmente sovvertitrice dei vecchi valori per ristabilire un ordine politico e sociale  che ne favorisse lo sviluppo e l’affermazione.

            La storia dell’unità d’Italia vista e rappresentata attraverso alcuni momenti-chiave che ne cogliessero la complessità ideologico-politica al di là degli eventi militari e dei fatti normalmente citati nei libri di storia.

            L’osservazione minuta e precisa dell’aristocrazia al tramonto condotta con quello sguardo, proprio del migliore Visconti, che si posa sugli oggetti, sui corpi, sui volti, sui costumi, sugli atteggiamenti, sui gesti, nella grande sequenza del ballo, in cui tutti i personaggi , maggiori e minori , paiono confluire in un quadro di noia esistenziale e di sfacelo etico ed estetico, conferisce all’insieme non soltanto una straordinaria unità espressiva, ma anche un significato politico-sociale non equivoco.

”Il diavolo in giardino”

            Quest’opera fu rappresentata con buon successo di critica e di pubblico nel 1963 al Teatro Massimo di Palermo.

Il soggetto prende spunto dal famoso “giallo” della collana della regina Maria Antonietta per articolarsi e svilupparsi in una serie di scene e scenette che mettono in burla, complice un diavoletto grazioso e infantilmente dispettoso, un’intera società alle soglie della Rivoluzione francese.

La società aristocratica del Settecento fornisce lo spunto ambientale e storico per comporre un gioco scenico che si affida in pari misura a un dialogo evasivo e grottesco, a un’azione fra il farsesco e il bucolico, e a una musica esplicitamente imitativa d’accompagnamento.

 

 

 

”I lavori negli anni ‘60”

Gli spettacoli d’opera e di prosa che Luchino Viscontì allestì in questo periodo si possono così brevemente ricordare:

“Traviata” per il Teatro Nuovo di Spoleto

“Tredicesimo albero” di Andrè Gide per il teatro Caio Melisso di Spoleto

“Nozze di Gigaro” per il teatro dell’Opera di Roma

“Il Trovatore” per il Teatro Bolscioi di Mosca e per il Coven Garden di Londra

“Après la chute” di Arthur Miller per il Teatre du Gymnase di Parigi

“Il Giardino dei ciliegi” di Cecov al Teatro Valle di Roma

“Don Carlos” per il Teatro dell’Opera di Roma

“Falstaff” per la Staatsoper di Vienna

“Der Roswnkavalier” di Richard Srauss

“Egmont” di Goethe nel cortile di Palazzo Pitti a Firenze

“La monaca di Monza” di Giovanni Testori al Teatro Bonci di Cesena

“Inserzione” di Natalia Ginzburg per il Teatro San Babila di Milano

“Simon Boccanegra” per la Staatsoper di Vienna

”I film nello stesso periodo”

A proposito del film “Straniero” dal libro di Albert Camus Luchino Visconti disse

“Questo piccolo libro così importante, non lo tradirò. Voglio rispettarne tutta l’essenza e sottomettermi umilmente al testo. Per fortuna ho tutto il tempo di riflettere ….. Ho da lavorare per oltre un anno”.

“Vaghe stelle dell’Orsa” fu insignito del Leone d’Oro alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia nell’anno 1965.

Insieme a Suso Cecchi D’Amico Visconti  scrive la sceneggiatura del film “Giuseppe ed i suoi fratelli”. E ancora con Suso lavora a  “La contessa Tarnowska” e “I turbamenti del giovane Torless”.

Nel 1971 realizzò il film “La caduta degli dei” dopo aver fatto lunghi sopralluoghi a Parigi, in Normandia e altrove con lo scenografo Mario Garbuglia, alla ricerca di quei luoghi che molto amava e già conosceva e che allora riviveva pensando alla sua infanzia con ricordi, nostalgie, ripensamenti e malinconia. Il film ricostruisce la nascita del nazismo in Germania e del suo primo affermarsi nel potere con l’aiuto della grande industria tedesca, fra il 1933 e 1934; costituisce il tema di fondo attorno al quale ruota la storia privata di una famiglia di industriali ricca e potente, i cui membri si dilaniano l’un l’altro.

Nel film “Morte a Venezia” Visconti rimase sostanzialmente fedele al testo di Thomas Mann apportandovi solo alcune modificazioni per rendere più spettacolare la progressiva dissoluzione del protagonista, lo scrittore Gustav von Aschenbach, che nel film diventa musicista, con chiari riferimenti a Gustav Mahler, la cui musica fu abbondantemente utilizzata per dare alle immagini una particolare dimensione struggente. In particolare furono utilizzati brani tratti dalla terza e dalla quinta sinfonia.

Il film è quasi esclusivamente un lento e progressivo avvicinamento alla morte, come consunzione del corpo, annullamento della personalità, viaggio nel nulla. Tutto il resto, l’arte, la vita, gli altri, la natura e la città malata, sono brandelli di realtà che si dissolvono nella lunga agonia del protagonista , che sembra si voglia lasciar morire, privo ormai d’ogni ragione di esistenza e di lavoro.

A proposito dell’altro film importante “Ludwing” realizzato nel 1972, l’anno nel quale il regista fu colpito da trombosi e paralizzato al braccio e alla gamba sinistra, ci sembra interessante riportare quello che Luchino scrisse a Liliana Madeo:

“Forse “Ludwing”, visivamente e per ambientazione,si può ricollegare alla “Caduta degli dei “. Ma è nato dentro di me tanto tempo fa, prima della Caduta. Poi, perché giungessi a farlo, hanno concorso svariati elementi: il film su Proust “saltato” all’ultimo momento per difficoltà economiche, il viaggio che feci in Germania per gli “esterni” della “Caduta degli dei” e che mi condusse sui luoghi ove Ludwing visse. Per la storia e la letteratura tedesca, inoltre, ho sempre avuto un grande interesse : questo, dopo “la Caduta degli dei “ e  “Morte a Venezia” , è il mio terzo film in qualche modo legato alla Germania: il quarto, se avrò la forza necessaria per farlo, sarà “La montagna incantata” di Mann”.

Il progetto Della “Montagna incantata” dovette essere accantonato per altri impegni in quei tempi e il film, anche in seguito, non si poté più fare.

Il film “Ludwing” narra la breve vita dell’ultimo re di Baviera, Lugwing von Wittelsbach, da quando, nel 1864, non ancora ventenne sale al trono, a quando, ormai solo, abbandonato da tutti, chiuso in suo mondo di follia e di sfrenatezza, persi anche l’amore e l’amicizia della cugina Elisabetta d’Austria, la sua unica vera confidente, si uccide nelle acqua del lago di Standberg nel 1886.

Vi si descrivono le cerimonie, le feste, gli spettacoli, la vita nei vari castelli, i rapporti con i parenti – la madre, il fratello, i cugini – e gli amici, le questioni di governo, e soprattutto la sua adorazione per Wagner, che ne approfitterà;  ma vi si descrive in particolare la sua solitudine, la sua macerata esistenza, dagli entusiasmi e dagli ideali della giovinezza al cupo pessimismo della maturità, perdute tutte le illusioni di grandezza e le aspirazioni all’eterna bellezza.

E’ una vita emblematica, per il dissidio insanabile fra arte e vita, che Visconti osserva con occhio al tempo stesso partecipe e lucido, immergendo a poco a poco il suo personaggio nel labirinto della pazzia, non risparmiando, nei confronti degli altri personaggi, gli strali dell’ironia e del sarcasmo, quasi fossero essi soli e il loro gretto egoismo ad aver provocato quella pazzia.

”Il canto del cigno”

Nei primi mesi del 1973 Visconti prepara la messinscena di “Tanto tempo fa” di Harold Pinter. 

La forza drammatica di questo testo risiede nel suo rapporto ambiguo e misterioso. E’ un dramma della incomunicabilità, anche se i personaggi parlano continuamente.

La messinscena della “Manon Lescaut” di Giacomo Puccini per il Teatro Nuovo di Spoleto diretta da Thomas Schippers fu un vero trionfo di critica e di pubblico.

L’incontro Puccini-Visconti, già vagheggiato da tempo attraverso il progetto d’un film biografico sul musicista, che non fu mai realizzato, fu un incontro autentico, di affinità elettive, di consonanza artistica e culturale.

La riscoperta che Luchino fece di questo musicista un tempo trascurato a vantaggio dell’amatissimo Verdi, è un ulteriore segno dei tempi, una conferma del bisogno di Visconti di realizzarsi interamente nella soggettività dei ricordi, nel piacere del tempo perduto.

“Manon Lescuat” , che confermò le sue grandissime doti di regista d’opera e il suo finissimo gusto dell’ambientazione,  fu per Visconti in certo senso il canto del cigno; il punto d’arrivo di una lunga ricerca nel campo del melodramma.

Nel corso del 1974 realizzò anche il film “Gruppo di famiglia in un interno” . Questo film nacque dall’espresso desiderio di Visconti, dopo il male che lo tenne paralizzato in una clinica di Zurigo, di realizzare “una storia a due personaggi, semplice e breve, tutta

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