OTTOBRE 2011 UNA SCELTA DI VITA Di Giorgio Amendola

notizia pubblica il 29/06/2012 - ultimo aggiornamento del 29/06/2012

OTTOBRE 2011

UNA SCELTA DI VITA  

Di   Giorgio Amendola

Edizioni Rizzoli

 

            Giorgio Amendola racconta la sua vita in questo libro che ci fa conoscere come è nato e cosa è stato il fascismo per l’Italia. E’ un racconto in prima persona che noi cerchiamo di riportare nelle sue espressioni più significative.

 

UNA INFANZIA PRECOCE

            Gli anni più belli della mia infanzia li ho passati nella casa di via Paisiello. Gli edifici finiti ed abitati erano pochi e grandi pratri sassosi li separavano dai casamenti degli “impiegati”, che si levavano massicci accanto alla via Salaria. La nostra casa era la più modesta tra le ville e le palazzine che già si accingevano a dare un tono pretenzioso a quello che sarebbe diventato un elegante quartiere residenziale.

            Che la mia famiglia fosse diversa dalle altre non c’era da dubitarne. Anzitutto perché c’era mia madre, che era una straniera – russa, dicevano – nata a Vilno in Lituania, allora provincia dell’impero russo. Mia madre aveva i suoi lavori, i suoi amici, la sua corrispondenza personale. Usciva tutti i giorni e trascurava le faccende domestiche, affidate alle donne di servizio, per lo più a ore, che si succedevano rapidamente.

            A via Paisiello erano giunte le racimolate masserizie, soprattutto libri, molti libri, libri accumulati anch’essi in disordine, ammucchiati su improvvisate librerie, la sola ricchezza della casa.

Mio nonno Pietro fu il terzo di sette figli e con lui la leggenda comincia a prendere precisi connotati. Era scappato di casa – si diceva – nel ’60 per raggiungere i Mille, ma era stato rinviato indietro perché troppo giovane.

Il vero eroismo di Pietro Amendola dovette rifulgere nella lotta condotta senza tregua contro la miseria, combattuta sempre con civile decoro. Mio padre provvide subito a togliermi ogni illusione parlandomi della “fame” che aveva sofferto nell’infanzia, dell’uovo sodo spaccato in quattro parti, dell’olio versato goccia a goccia sull’insalata. Dovette essere impresa ardimentosa farli crescere nella Roma fine secolo. Solo Giovanni potè seguire gli studi, quelli tecnici, perché finivano prima.

Alla Camera dei Deputati il sottoscritto, nel discorso pronunciato contro la legge nel 1953 , ha potuto dire che “Mio bisnonno mazziniano, mio nonno garibaldino, mio padre antifascista, io comunista, questa è la linea del progresso politico nazionale”.

Su questa famiglia di piccola borghesia meridionale, poverissima, emergente con mille fatiche per conquistare migliori posizioni economiche e sociali, piombò devastatrice l’intrusa, la straniera, la russa, mia madre. Ho sempre creduto che fosse stata allontanata da Vilno perché coinvolta in quella università in una cospirazione studentesca antizarista. Probabilmente mia madre, finiti gli studi medi, ottenne di frequentare le università straniere e passò successivamente da Lipsia a Dresda, a Londra, a Zurigo, per approdare poi a Roma dove incontrò mio padre.

Mio padre era diventato corrispondente politico da Roma del “Resto del Carlino”, diretto da Missiroli. Aveva nello stesso tempo ottenuto un incarico di filosofia teoretica nell’università di Pisa. Era finalmente uscito dal giro affannoso delle traduzioni e delle saltuarie collaborazioni. Aveva ormai uno stipendio fisso che per quell’epoca doveva essere considerevole.

La mia casa era sempre aperta glia amici, soprattutto di mia madre, perché mio padre tendeva ormai a vedere altra gente e si avviava rapidamente alla politica.

Mia madre mi portava sempre con sé, al caffè, al teatro, alle mostre e, contro i parenti che la criticavano, si difendeva affermando che era bene che un ragazzo cominciasse a vedere, il più presto possibile, tutto quello che c’era da vedere. “Non gli farà male” diceva.

Crescevamo in mezzo al verde, correndo instancabili ed indisturbati per ore ed ore da via Salaria a Valle Giulia, senza farci arrestare da alcun ostacolo. Roma era ancora una città contadina. Le pecore transitavano di notte anche per il centro di Roma, andando o venendo dall’Abruzzo.

Gli anni di via Paisiello mi paiono interminabili nella memoria, eppure furono solo cinque. Furono gli anni in cui mia madre dominò la mia vita. Mio padre, chiuso e severo, non mi portava mai con sé. Poi venne la guerra e dovette partire.

Con l’inizio della guerra mia madre si impegnò nell’attività assistenziale. Prima si occupò di assistenza ai sordomuti, quelli in particolare che lo erano diventati per lo choc dei bombardamenti. Poi passò all’assistenza dei ciechi.

Mio padre, richiamato a Roma dal fronte per il suo lavoro di corrispondente del Corriere della Sera, soffriva di febbri malariche contratte in guerra dove era stato leggermente ferito e rispondeva serio alle mie domande sulla guerra. Credevo di comprendere, dal silenzio imbarazzato che seguiva alle mie richieste, che la guerra non era quella bella festa che era apparsa al momento della partenza del suo reggimento. Un giorno vidi mio padre parlare commosso e compresi che c’era stata una grande sconfitta. Era Caporetto. Questo nome cominciò a risuonare tristemente.

Ci trasferimmo in una abitazione al sesto piano in via Porta Pinciana dove rimanemmo fino alla morte di mio padre. Ci si arrivava per una scala di servizio, senza ascensore. Una scala che non finiva mai, specialmente quando si tornava da scuola affamati. Quando mio padre diventò Ministro, i visitatori ufficiali dovevano anch’essi arrancare a piedi su per le scale. Ma, quando venne il fascismo, quell’inconveniente si trasformò in un vantaggio. Più volte i fascisti penetrarono nel cortile per cercare di arrivare a devastare la casa Amendola, ma quel budello oscuro e interminabile non era invitante, e ogni volta, giunti al terzo o quarto piano, preferivano tornare indietro.

Nell’estate del 1918 mia madre, benché fosse in stato di avanzata gravidanza, decise di andare a Capri. Feci così a undici anni la conoscenza dell’isola nella quale dovetti poi passare tanto tempo e vivere momenti importanti.

 

UNA DISORDINATA ADOLESCENZA

            Qualche anno fa, nel clima creato dal Concilio Vaticano II, fui invitato a tenere una lezione di ateismo a un corso di giovani sacerdoti. Accettai, il corso si teneva in una villa sulla via dei Laghi. Il sacerdote organizzatore e animatore mi presentò con queste parole : “Mio padre era un fascista ucciso dai partigiani, il padre del deputato Amendola era un antifascista ucciso dai fascisti. Questa era l’Italia di ieri, ferita da tante lacerazioni. Ma oggi, nella Repubblica Democratica possiamo incontrarci tra avversari, per imparare a conoscerci meglio”.

            Mia madre progettava di trasferirsi a Milano forse perché lì vi era la sede centrale del movimento futurista. Ma erano progetti un po’ confusi perché mio padre che avrebbe dovuto occupare un posto nella redazione centrale del “Corriere della Sera” era già impegnato nella campagna elettorale che doveva farlo diventare deputato nelle elezioni politiche del 16 novembre del 1919.

            Milano come residenza arrivò davvero e furono trovati due collegi laici per noi ragazzi, il collegio reale delle fanciulle per Ada e il collegio Comunale Calchi Taegi per me.

            Eletto deputato, mio padre venne a passare il Natale a Porto Ceresio. Sentii che ci doveva essere stata tra i miei genitori una riconciliazione; fecero una gita in battello a Lugano e tornarono tutti contenti. Il matrimonio stava resistendo tra crisi e difficoltà di ogni genere, anche economiche. Io fui inviato a passare l’estate a Salerno dai parenti per queste difficoltà finanziarie.

            Mio padre era stato anche se per breve tempo sottosegretario alle Finanze nel terzo ministero Nitti. La partecipazione di Amendola alla battaglia elettorale del 1919 segna l’inizio di un mutamento di posizioni politiche. Dopo la guerra il contatto con la piccola borghesia e i contadini della provincia di Salerno modificò i suoi orientamenti e si schierò contro Giolitti e Salandra, accanto a Nitti che era contrario a nuove avventure nazionalistiche ed imperialistiche. Passò insomma da posizioni di severa conservazione a posizione di avanzata e rinnovatrice democrazia.

            Ritornai a Roma al ginnasio-liceo Visconti dove conseguii la licenza liceale nel 1926. Studiavo male, sempre irregolare, ma in quel tempo divorai i grandi romanzi dell’ottocento, quelli francesi e russi in particolare.

            Mio padre era diventato Ministro delle Colonie e lo stipendio era dimezzato, dalle 4000 lire del Corriere della Sera alle 2000 da Ministro.

Io non mi interessavo molto di politica ma rimasi disgustato dal fatto che al passaggio del corteo degli squadristi in occasione del congresso fascista all’Augusteo i passanti erano obbligati a togliersi il cappello davanti ai gagliardetti e chi non lo faceva veniva bastonato.

Gli avvenimenti stavano precipitando: c’erano notizie di scioperi falliti, di violenze e di occupazioni fasciste di città e provincie. Spazzate via tutte le esitazioni diventai antifascista e nutrii per i fascisti disprezzo, odio e collera. Anche mio padre non nascondeva i suoi sentimenti di disprezzo per “quella marmaglia”.

Lo spettacolo della marcia su Roma fu miserabile. Se il re l’avesse voluto, l’esercito non avrebbe avuto difficoltà a spazzare via quelle canaglie diceva mio padre. Ma gli alti comandi avevano consigliato la resa e sul balcone del palazzo del Quirinale c’era Vittorio Emanuale accanto a Mussolini in camicia nera.

Avevo quindi anni. In quelle settimane dell’autunno del 1922 si decise il mio avvenire. Forse senza il fascismo il lato torpido e pigro del mio carattere avrebbe preso il sopravvento, e io sarei cresciuto, malgrado la severità paterna, come il solito “figlio di papà”, che trova facilmente la via aperta davanti a sé. Il fascismo e la precoce iniziazione alla lotta, poi l’assassinio di mio padre, lo smembramento della famiglia con mia madre sempre rinchiusa in una casa di salute, mi misero alla prova e mi obbligarono a tirar fuori quello che avevo di buono, soprattutto una testarda volontà.

 

LA SCONFITTA

Mio padre si recava abitualmente alla Camera dei deputati e al giornale a piedi. Formalmente Amendola non si era ancora impegnato nella lotta. Come Nitti, anch’egli non aveva partecipato alla discussione svoltasi alla Camera dopo il discorso di presentazione di Mussolini, quella dell’”Aula sorda e grigia”. Il rifiuto di ogni contatto personale con Mussolini, le dichiarazioni di condanna e di disprezzo da lui pronunciate determinarono da parte del fascismo un atteggiamento di sempre più dura violenza. Sentiva fortemente il disagio morale per le disavventure toccate a persone che avevano avuto fiducia in lui e nella sua carriera politica, e della cui sorte si sentiva responsabile. Fedeli ad Amendola rimasero pochissimi capi-elettori. Il fascismo cercava non di distruggere le clientele ma di appropriarsene per farne la propria base.

Quando tornai in provincia di Salerno, venti anni dopo, rappresentante del Partito Comunista, trovai moltissimi lavoratori che mi abbracciarono commossi e che mi mostrarono i foglietti ingialliti e piegati delle lettere di Amendola, conservati con mille precauzioni durante la lunga attesa.

Sentii allora, attraverso quelle prime esperienze, che il fascismo non era soltanto un movimento politico, un nuovo governo, ma un fatto destinato a incidere direttamente nella nostra vita personale, anche nelle cose quotidiane, nell’abitare in un posto o nell’altro, nel mutare, insomma, il corso del nostro destino individuale. Avevo sedici anni, e questi due fatti, la malattia nervosa di mia madre e le violenze e prepotenze fasciste, contribuirono, assieme, a farmi comprendere come il dolore, le mortificazioni, le violenze fossero componenti ineliminabili della vita.

Due giorni dopo che era stata profanata e devastata la casa di Nitti mio padre mentre stava avanzando svelto verso casa fu assalito da alcuni individui scesi da un’automobile che aveva continuato lentamente a seguirlo. Pochi colpi alla testa, dati alle spalle, e Amendola cadde a terra. Alla scena era accorsa gente, gridando e dando l’allarme. Gli aggressori erano risaliti in macchina ed erano ripartiti in gran fretta. Mussolini, che si trovava a Milano, ebbe notizia per telefono dell’accaduto, prima di colazione. Rispose che avrebbe mangiato con maggiore appetito.

Nelle elezioni del 1924 Nitti non volle presentarsi. La sua vecchia base elettorale era franata. Amendola dovette concentrare i suoi sforzi in Campania con collegamenti in Abruzzo, in Calabria e in Sardegna.

Il listone fascista raccolse in tutta Italia oltre quattro milioni di voti ma era ricorso a tutti i mezzi : brogli, violenze, voti controllati, bando agli oppositori.

Amendola scese a Sarno a 27 voti quando ne aveva raccolti duemila nel 1921.

 

L’AVENTINO

Il 10 giugno Matteotti uscì di casa ma non arrivò a Montecitorio. Si seppe subito che era stato prelevato a forza e cacciato in un’automobile.

Mussolini aveva dato via libera agli squadristi per riproporre il vecchio ricatto: o date la fiducia a me che sono il solo a poter controllare gli squadristi, o avrà luogo una esplosione di violenza. Infine il fascismo riceveva nuove e importanti adesioni, anche da parte degli intellettuali.

Amendola guardava ormai aventi, lontano. A casa usava dire: “Ci vorranno vent’anni. Preparatevi, studiate le lingue, forse bisognerà emigrare”. Capiva di essere stato ingannato dal re e quindi i suoi sentimenti erano diventati ostili anche alla sua persona. Lo considerava ormai una marionetta.

Il sequestro dei giornali d’opposizione si moltiplicavano e così l’unica arma di cui poteva disporre l’opposizione era smussata.

 

LA MORTE DI MIO PADRE

Amendola era partito per Montecatini, dove aveva da tempo prenotato all’albergo La Pace due stanze per lui e per l’amico e segretario Federico Donnarumma di Siano.

Amendola aveva voluto portare avanti il documento dell’Aventino che manteneva aperta la questione morale  malgrado la conclusione del processo all’Alta Corte e quindi assunse di fronte al paese e ai fascisti la responsabilità della condotta delle opposizioni. Perciò doveva essere colpito.

Appena Amendola arrivò a Montecatini furono fatte venire da Lucca le squadre comandate da Scorza. Tutta la città fu messa in stato di assedio. Ci fu un primo tentativo di invasione dell’albergo e mio padre fu condotto in un’altra stanza separandolo dall’amico.

In piena notte fu deciso di uscire dalla città ed un tenente dei carabinieri si impegnò a salire con lui nell’automobile. L’eterna e fatale illusione!  Appena uscito dall’albergo  Amendola fu travolto da un primo assalto: colpi di manganello, lancio di pomodori, sputi e insulti. Fu buttato di peso su una macchina e si trovò solo tra quattro fascisti. Il tenente dei carabinieri non c’era più. Dietro seguiva lentamente un camion dei carabinieri, ma al primo bivio prese un’altra strada.

L’automobile dei fascisti portò Amendola al luogo prestabilito per l’agguato, tra Monsummano e Serravalle, in località Ponte a Nievole. Nel 1965 fu posto un cippo marmoreo che ricorda quella notte.

Amendola restò a lungo a letto, non si riprendeva. Il colpo fisico era reso più grave dal colpo morale, dalla coscienza di aver perso la battaglia. Anche le condizioni di mia madre erano sempre cattive e rimaneva ricoverata, qualche volta non mi permettevano addirittura di vederla.

Giovanni Amendola fu ricoverato in Francia nella stessa clinica nella quale fu portato, negli stessi giorni del febbraio 1926 Piero Gobetti che era giunto dall’Italia in un disastroso stato di salute, conseguenza delle condizioni creategli a Torino in applicazione delle direttive inviate da Mussolini al prefetto di quella città di “rendergli la vita impossibile”.

Il centro dei disturbi non si trovava nella tiroide, ma nei polmoni. Tre clinici francesi in dichiarazione scritta affermarono che : “ci sembra esservi luogo ad ammettere che la sua localizzazione è stata condizionata dal violento traumatismo prodotto sulla regione corrispondente all’emitorace sinistro nel luglio del 1925”.

Nelle ultime ore, partiti tutti gli amici, eravamo rimasti nella stanza la Pavloma, Ruini e io. Il rantolo diventava sempre più straziante, poi egli si sollevò, si guardò attorno, levò la mano per farmi una carezza, ricadde, e fu tutto.

Mio padre non mi aveva mai rimproverato di partecipare al lavoro dell’organizzazione studentesca, non mi aveva mai proibito di occuparmi di politica, ma aveva preteso, e con ragione, che studiassi a scuola e a casa, perchè – aveva detto un giorno sprezzante – “gli ignoranti non combinano mai niente”.

La notizia della morte di Amendola era stata data in poche righe. La spiegazione era quella di un “male inguaribile”.

La vera cerimonia funebre fu quella nella sua stanza di lavoro, nella redazione del Mondo che era stato completamente devastato dai fascisti. Mettemmo nella stanza una targa con la scritta:

“L’insegnamento di Giovanni Amendola – che la volontà è il bene –

 - s’illumina della luce del suo martirio – e lo raccolgano i giovani -

– sicuri che solo dal sacrificio – nascerà la giustizia dell’avvenire”.

 

            Il ritorno a casa fu duro. Mio padre aveva lasciato un testamento nel quale si pregava lo zio Mario di diventare il nostro tutore. Ciò voleva dire trasferirsi a Napoli.

 

NAPOLI

            La cosa a cui tenevo di più era la sistemazione della biblioteca di famiglia. Quando nel 1945 tornai a Roma trovai la biblioteca largamente saccheggiata. Ma non importa, i libri sono fatti per circolare.

            Lo zio Mario era uomo di casa. A casa ci stava volentieri e voleva che tutti gli altri ci stessero il più possibile. L’ora dei pasti era precisa: le 13,30 e le 20,30, guai a sgarrare un minuto !

            Nel giugno del 1925 era morto a Torino, il figlio del senatore Frassati, Pier Giorgio, un giovane attivista cattolico educato dai salesiani. Di lui si diceva già allora un gran bene per la semplicità e schiettezza dei modi e per i suoi sentimenti antifascisti. Il senatore Frassati chiedeva di prendersi cura di mio fratello Antonio per farlo studiare nel collegio dei salesiani, ospitarlo a casa nei giorni di vacanza, trattarlo, insomma, come un figlio.

            Antonio aveva dieci anni ed era un bellissimo ragazzo, quello che somigliava di più a nostro padre. Era cresciuto selvaggio e ombroso e male pensavo avrebbe sopportato la disciplina del collegio. Anche se i risultati scolastici erano decisamente buoni, per cattiva condotta, fu obbligato a lasciare il collegio e finire gli studi liceali a Napoli. Anticipò la licenza guadagnando addirittura un anno.

            Intanto la furia fascista si scatenava e furono devastate le case di Benedetto Croce, di Arturo Labriola, di Roberto Bracco ed altri antifascisti.

 

UN TENTATIVO FALLITO

            La conferma dell’atteggiamento coraggioso dei comunisti mi arrivò, per via indiretta, dallo stesso Mussolini. Una volta vidi uscire dallo studio di Croce un vecchio professore liberale, che mi sembrò turbato ed umiliato. Mi permisi di chiedere a Croce che cosa gli fosse capitato per ridurlo in quelle condizioni. Croce mi disse che era preoccupato perché suo figlio era stato arrestato mentre cercava di passare illegalmente la frontiera in sci, per prendere contatto in una località invernale francese con alcuni antifascisti emigrati. Il professore aveva chiesto udienza a Mussolini per ottenere la liberazione del figlio. Mussolini lo aveva ricevuto, lo aveva rassicurato sulla sorte del figlio ma aveva voluto aggiungere: “In questo momento vi sono in carcere centinaia di giovani operai e braccianti comunisti che non chiedono nessuna grazia e per i quali non si muove nessun professore universitario”.

LA PREPARAZIONE

            Mia madre restava rinchiusa a Villa Giuseppina a Roma. Aveva raggiunto un soddisfacente grado di tranquillità e il professore Mendicini mi aveva assicurato che, superata l’età critica, avrebbe ritrovato l’equilibrio necessario per tornare nel mondo. Intanto le avevano tenuto nascosta la notizia della morte di mio padre.

 

LA ROTTURA

            Nell’inverno del 1928-29 stavo per farmi prendere dai dolci lacci dell’attendismo. Il mio primo tentativo di dare vita a una organizzazione clandestina era fallito miseramente. A Roma vedevo solo le persone già compromesse e sorvegliate. Il fascismo era più forte che mai. La Conciliazione, e poi il Plebiscito, dimostravano quell’anno che attorno al regime si era creata una vasta zona di consensi più o meno consapevoli.

            Ero fuggito da mio zio perché non potevo sopportare più quel modo di vivere scandito dall’orologio e dalle formalità. Cercavo un lavoro e fui fortunato di trovarlo come commesso nella libreria del signor Johannwski in piazza del Plebiscito. Appena uscivo dalla libreria, dal portone della prefettura spuntava fuori e mi veniva dietro il mio custode, che mi accompagnava dovunque.

            Ci sapevo fare ed il mensile passò in pochi mesi da 300 a 800 lire ed avrei potuto ottenere anche di più se non avessi preferito concordare un orario elasticamente calcolato dalle 9 alle 17 o dalle 11 alle 19. Mangiavo un panino e nelle ore morte leggevo.

            Povero signor Johannowski, non sapeva che la libreria sarebbe diventata anche un recapito clandestino del partito !  Dopo la guerra, quando tornai a Napoli, trovai che la libreria era ancora aperta, già mezza vuota. C’era ancora il signor Johannowski che mi accolse a braccia aperte. Il vecchio era molto malato e presto morì e non dovette assistere allo sfratto dato alla sua libreria, operato da un prefetto che per motivi di ordine pubblico non tollerava la presenza a pianterreno della prefettura di un centro di vita e di cultura, comportandosi peggio di come si erano comportati i prefetti fascisti.

 

L’ISCRIZIONE

            Nel 1929 maturò la mia scelta. Non fu una decisione avventata, ma il frutto di lunghe riflessioni. Non mi nascondevo gi ostacoli che avrei dovuto incontrare. Non consideravo una difficoltà il fatto che avrei dovuto scegliere una strada diversa da quella seguita da mio padre. Non poteva trattarsi per me di una fedeltà formale alle ultime posizioni di un uomo che la dura sconfitta subita rendeva aperto a nuovi sviluppi ideali, ma di una fedeltà sostanziale al suo insegnamento volontaristico, per cui la volontà è il bene. Io avevo il dovere anzitutto di confermare con la mia azione politica quelli che erano i miei convincimenti. Se la strada seguita da mio padre per battere il fascismo si era conclusa con la sua sconfitta e la sua morte, per raggiungere l’obiettivo che egli invano aveva cercato di raggiungere io dovevo cercare una strada diversa, e seguire quella che mi sembrava essere la buona, la strada indicata dal PCI.

            Né mi preoccupavano le conseguenze pratiche della mia scelta : restare in Italia,vivere poveramente, svolgere una attività clandestina ed accettare come probabile, quasi sicura, la prospettiva di essere arrestato. Più forti erano, invece, le preoccupazioni per le conseguenze che potevano derivare ai miei dalla  mia attività.

            Bisogna dire che l’affettuosa assistenza degli amici non è mai mancata, anche quando, prima Antonio, per un breve fermo, e poi Pietro per essere condannato dal Tribunale Speciale, furono a loro volta arrestati.

            Sulla mia scelta gli amici di gioventù erano sorpresi e subito pensavano : “come può il figlio di Giovanni Amendola diventare comunista ?”.

            Benedetto Croce invece fu categorico : Giorgio Amendola è un giovane serio, studia, lasciatelo tranquillo.

            Il Partito mi chiamò nel 1931, all’estero, non per restarci come emigrato, ma per entrare a far parte del suo apparato illegale. Quando giunsi a Parigi incontrai Germaine ad un ballo popolare, la sera del 14 luglio. Così indirizzi politici e decisioni individuali si incrociavano, per fissare quello che sarebbe stato il mio umano destino.

            Avevo ventitre anni. La via non era stata diritta e facile, ma tortuosa e piena di ostacoli. Tutte le varie e contrastanti esperienze, le tentazioni e le dispersioni, le molteplici influenze trovavano ora uno sbocco sicuro, in una scelta che doveva significare volontà, coerenza, disciplina interna e anche esterna, ma sempre politicamente e moralmente motivata. Sapevo che, compiendo quella scelta, andavo incontro a un mondo nuovo, appena intravisto, e che avrei imparato a conoscere, nella lotta, donne e uomini generosamente impegnati nelle dura battaglia dell’emancipazione.

            Sono passati quasi cinquant’anni da quei giorni, e scrivendo sento ancora, come nuovissimo, il senso di commozione con il quale feci quel passo. Ho compiuto, naturalmente molti errori. Molte speranze si sono rivelate fallaci. Molti obiettivi più difficili da raggiungere di quanto allora pensassimo. Ma la direzione era quella buona. Molti amici, dai quali allora mi divisi, sono arrivati, più tardi e per altre vie , alla stessa conclusione.

            Ricordo una manifestazione antifascista a Roma, in piazza Santissimi Apostoli, nella quale parlò, prima di me, Carlo Levi. Partiti da comuni posizioni ci eravamo ritrovati, dopo tante diverse vicende, presenti all’appuntamento.

            Non fu, dunque, una scelta avventata e superficiale.

Fu, per me, la scelta giusta.

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