OTTOBRE 2012 - PUCCINI

notizia pubblica il 17/10/2012 - ultimo aggiornamento del 17/10/2012

CASA CULTURALE DI SAN MINIATO BASSO

SEZIONE SOCI COOP DEL VALDARNO INFERIORE

 

OTTOBRE  2012

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sezione letture


PUCCINI

Alcune notizie sulla vita di Giacomo PUCCINI tratte dai libri di

Nori Andreini Galli, Claudio Casini e Mosco Carner.

 

UNA VEDOVA MAMMA FORTE E PREMUROSA PER IL SUO GIACOMO

Michele Puccini, il padre di Giacomo, morì a cinquantun anni lasciando la vedova Albina con sette figli, cinque femmine e due maschi, fra cui Giacomo di soli cinque anni .

            Nel 1739 un Puccini, pure esso un Giacomo, era stato ordinato organista del Duomo e l’anno dopo maestro nella Cappella musicale della Repubblica. Dopo di lui per decine d’anni i Puccini si trasmisero, di padre in figlio, la professione e  le mansioni ufficiali di organista ufficiale del Domo di Lucca. Dopo Giacomo si ebbe insomma per un secolo e mezzo la successione di Antonio, Domenico e Michele.

            A Lucca era fuori discussione che il piccolo Giacomo al momento opportuno sarebbe diventato organista e maestro del coro, prendendo il posto del padre Michele e sarebbe stato “erede di quella gloria che i suoi antenati si erano conquistati nell’arte dell’armonia, e che forse un giorno sarebbe stato in grado di resuscitare”.

A riprova di quanto detto va ricordato che il decreto con cui le autorità di Lucca installarono Fortunato Magi al posto di Michele conteneva una clausola che diceva che il Signor Magi “conservi e rilasci al Signor Giacomo, figlio del prelodato  fu Signor Maestro , il posto di Maestro Organista e di Cappella …….. appena che il nominato Signor Giacomo Puccini, ora infante, sia abile al disimpegno di tale ufficio.

Che a un bambino di sei anni si assicurassero in tal modo le cariche del padre è probabilmente un fatto unico nella storia della musica.

Alla mamma era concessa inoltre una pensione speciale di sessantasette lire mensili per tirare avanti con quella numerosa famiglia a carico. Albina era una donna molto intelligente che non tollerava l’ignoranza e in luogo di mandare le figliole a lavorare, provvide ciascuna di una professione: Tomaide divenne professoressa di francese, Otilia insegnante di pianoforte, Nitteri, Iginia e Ramelde conseguirono il diploma di maestra elementare. In tempi nei quali chi sapeva leggere e scrivere era un privilegiato e le donne si tenevano in casa a dire le orazioni, l’impegno di Albinia fu davvero straordinario.

GLI INSEGNANTI DI GIACOMO PUCCINI

Giacomo Puccini entrò in seminario che aveva nove anni e il primo suo maestro fu Fortunato Magi, iracondo e rigorista che lo picchiava sulla gamba sinistra ad ogni sbaglio. Forse erano anche colpetti non troppo lievi se Giacomo, vecchio e famoso, non poteva sentir stonare, senza contrarre la gamba, nervosamente.

Rimase in seminario sei anni, uno più del necessario, avendo dovuto ripetere l’ultimo, perché bocciato all’esame di retorica. Gli studi musicali però avevano avuto un corso regolare dopo che il ragazzo era stato affidato dalla madre al maestro Carlo Angeloni.

L’educazione di Giacomo, secondo la madre, doveva includere più delle nozioni necessarie a formare un semplice musicista anche una solida cultura letteraria; e fu così che Albina, cui non si può non riconoscere una notevole forza d’animo e una determinazione quasi virile nell’accudire alla numerosa famiglia, iscrisse il figlio ai seminari migliori di Lucca, quello di San Michele e poi a quello di San Martino.

PRECOCE ORGANISTA E COMPOSITORE

A quattordici anni già suonava durante le funzioni religiose nelle chiese e con il bisogno di aiutare la famiglia (e spinto anche dal vizio del fumo) accettava inviti per impegni meno dignitosi come suonare il pianoforte nei luoghi di villeggiatura o nelle taverne e perfino in una casa malfamata di via della Dogana.

A sedici anni aveva addirittura un allievo, Carlo Della Nina, che abitava nella vicina Porcari e che di mestiere faceva il sarto. Per questo allievo che aveva la sua stessa età Puccini scrisse le sue prime composizioni, brevi pezzi per organo, a sessanta centesimi l’uno.

A parte i pezzi scritti per il suo allievo Della Ninna la produzione giovanile, da iscriversi agli anni fra il 1876 e 1883, furono un “Preludio Sinfonico” , uno “Scherzo” per quartetti d’archi, un “Quartetto in Re”, un “Adagio” per pianoforte, alcune “Fughe” scolastiche, un “Trio in Fa” , la “Messa a quattro voci con orchestra” e la musica di un testo patriottico “I figli d’Italia bella”.

L’arte di improvvisare era già molto viva a quei tempi e pare che Puccini spesso facesse tremare preti e fedeli introducendo nelle sue fantasie brani tolti da canzoni popolari toscane o da opere celebri, specie quando, secondo un’antica tradizione lucchese, l’organista accompagnava l’uscita dei fedeli dalla chiesa.

Gli storici danno per preciso il giorno nel quale Puccini, diciottenne, avrebbe scoperto la sua vocazione : Fu alla prima rappresentazione dell’Aida a Pisa che aveva raggiunto a pied. A piedi da Lucca a Pisa e ritorno in piena notte.

Qui forse prese l’avvio la grande ambizione e  la speranza di rompere e superare l’impaccio della tradizione familiare come musico nel settore sacro della propria città.

Si manifestò in lui prepotente con quell’ascolto di musica operistica il sogno di andare a Milano, capitale della musica italiana, per iniziare un itinerario simile a quello del grande Verdi che tanto apprezzava. Era un sogno di adolescente per realizzare il quale Puccini non aveva certo il necessario bagaglio tecnico ma Lucca non era certamente il posto per far germogliare un talento d’operista.

A MILANO PER IL GRANDE PASSO

A Milano poté andare sono nel 1880, quando aveva ventidue anni e fu ancora una volta Albina che, con l’abituale energia e fermezza di propositi, rimosse ogni ostacolo dal cammino del figlio.

Per prima cosa prese contatto con lo zio Nicolao Cerù, noto medico lucchese, che aveva avuto un’impressione più che favorevole del “Preludio Sinfonico” del 1876 e della  “Messa” di due anni dopo, composte dal pronipote ed aveva concluso il suo resoconto dell’esecuzione col proverbio “I figli dei gatti prendono i topi”.

Per mezzo della duchessa Caraffa, mamma Albina indirizzò una petizione alla regima Margherita che aveva messo a disposizione una borsa di studio per studenti di talento provenienti da famiglie povere, nelle quale lettera mise opportunamente in evidenza che “per cinque generazioni i Puccini erano stati una dinastia di stimati musicisti”.

Dopo un certo tempo, Puccini ebbe assegnata una borsa di studio di 100 lire al mese per un anno e il prozio dottor Cerù si impegnò a pagargli gli altri due anni di corso al Conservatorio.

E’ sorprendente che il Comune di Lucca che aveva sempre mantenuto agli studi tutti i Puccini non volle per niente contribuire ad aiutare ora Giacomo. La spiegazione si ha forse nel fatto che il Puccini di quel tempo in Lucca voleva andare a Milano abbandonando la tradizionale carriera di organista e di maestro del coro della Cattedrale della sua città. A che pro mantenere col pubblico denaro un musicista di cui più tardi la città non avrebbe avuto nessun beneficio ?  I lucchesi, si sa, sono sempre stati ottimi affaristi !

IN GALLERIA

Nel 1880 Giacomo Puccini arrivò a Milano con il diploma dell’Istituto Pacini e la borsa della regina Margherita; al Conservatorio superò brillantemente l’esame di ammissione con il massimo dei voti.

I principali insegnanti di Puccini al Conservatorio della capitale della musica furono Antoni Bazzini ed Amilcare  Ponchielli, Amintore Galli e Ludovico Corio. Ai maestri non sfuggirono, con le singolari attitudini, la nobiltà del nuovo studente, che aveva alle spalle  quattro generazioni di musicisti.

Al bell’aspetto, al parlare toscano, quasi ostentato, allo scintillio del frizzo e del lazzo, giorno per giorno si aggiungevano la grazia e la disinvoltura, il fascino imponderabile, che viene dall’esercizio dello spirito. Di qui il graduale spalancarsi, per lui, delle grandi case milanesi: casa Ponchielli, Sala, Marcucci. L’amicizia con Catalani lo condusse a pranzo in casa di Giovannina Lucca, la grande editrice musicale.

Fiducioso nella regolarità degli studi, Puccini si comportò sempre con tenacia, pazienza e laboriosità, senza farsi prendere la mano dalla superficialità di un Mascagni. Avevano i due condiviso la camera, ma Mascagni nel 1882 decise di abbandonare gli studi, per darsi al mestiere nomade del musicante, di professore d’orchestra e di direttore e capo banda.

Puccini si preparò con coscienza agli esami finali e presentò come lavoro con il quale gli allievi si licenziavano dal conservatorio il “Capriccio sinfonico”, composto su appunti scombiccherati un po’ dovunque, per strada, a scuola, in trattoria, su pezzi di carta qualsiasi, magari di un giornale, nei quali il buon Ponchielli non riusciva a orientarsi, lasciando le briglie sul collo dell’allievo. La recensione sul Corriere della Sera del maggior critico musicale Filippo Filippi fu per questo lavoro : “In Puccini c’è un deciso e rarissimo temperamento musicale, specialmente sinfonista. Unità di stile, personalità, carattere”.

RIENTRO A LUCCA COME MAESTRO DI MUSICA

Rientrando a Lucca, al termine degli studi, Puccini che, a buon diritto ormai poteva chiamarsi maestro, poteva contare su un diploma, una medaglia e la pubblicazione di due composizioni.

Bello senz’altro, di una bellezza tutta animale. Sotto l’ala del cappello, fortemente inclinata, gli occhi, specchi scuri, smemorati, erano spesso socchiusi, quasi ad imprigionare la forza dello sguardo tra le ciglia. Naso importante, labbra tumide e morbidi baffi, ostentai con civetteria, capelli castani, lucidi, fitti ed appena ondulati. Anche la voce era affascinante, una voce da baritono, calda, bruna, mediterranea. Sulla porta del Caffè Caselli si distingueva da lontano: la sigaretta in bocca, la giacca sbottonata, la mano sinistra infilata nel giro del gilet, la destra in tasca: gesti e pose, che parvero alla gente di fuorivia estremamente eleganti e disinvolti e che invece sono propri dei lucchesi, quando siano in attitudine di riposo, in piazza, a casa, al mercato.

Allegro fino alla temerarietà, col gusto e l’estro dello scherzo ed il linguaggio osceno, un fine senso dell’umorismo, uno spirito caustico anche contro sé, il suo fascino irresistibile era accentuato dal garbo, dalla gentilezza dei modi, dalla cordialità e dalla modestia. Ma soprattutto incantava in questo ragazzo sul punto di essere uomo, quello che non si vedeva: l’ardore del sentimento, sempre in bilico fra tenerezza e disperazione, un’m’emotività sconfinata e, ad onta della virilità dell’aspetto, quasi femminea, una sensibilità sottilissima e morbosa e, in fondo, un’estrema timidezza.

Questo spiega il successo nei salotti milanesi, dove sapeva apparire distratto e riservato, elegante ed aristocratico, tanto da meritarsi il soprannome di Doge, e quello con le donne, fossero esse annidate nei canneti fruscianti e difese dal vento, come uccelli, o sui divani della Dogana, le cosce incipriate e gli occhi dipinti.

Puccini cominciò a fumare da ragazzo e più tardi divenne un fumatore accanito : un fatto che val la pena di ricordare a causa della malattia di cui morì.

Abbandonata la grande Milano, a casa sua, vicino a sua madre, si sentì al sicuro.

Dopo i primi saluti, come un tesoro, trasse di tasca il libretto di un’opera, che portava la firma di Fontana : era il canovaccio, la tela sulla quale avrebbe dipinto la musica, la condizione prima per l’ammissione al concorso Sonzogno.

Questo anno di ritorno a Lucca per Giacomo Puccini fu denso di quattro avvenimenti che descriveremo brevemente : l’esecuzione della prima sua opera “Le Villi” -  la morte della madre -  la passione per l’Elvira -  l’incontro con Giulio Ricordi.

L’OPERA “LE VILLI”

Non era probabile che qualche librettista di vaglia volesse mettersi in società con un novellino, né Puccini aveva i mezzi per pagarselo. Ma venne in soccorso Ponchielli, il maestro e amico fraterno. Ponchielli cercò di attirare l’attenzione di Giulio Ricordi su Puccini e fece di tutto perché il suo amico poeta e giornalista Ferdinando Fontana si adoprasse per comporre un libretto di supporto alla musica di Puccini. Ecco allora pronto il libretto per la prima opera di Giacomo : “Le Villi”.

La trama dell’opera è semplicissima:  “in un villaggio della Foresta Nera, un giorno di primavera, si celebra il fidanzamento di Anna e Roberto, il quale partirà per Magonza a raccogliere l’eredità di una zia. Anna è trista nel presentimento della morte e dell’oblio. A Magonza infatti, Roberto, sedotto da una cortigiana, la dimentica. Anna muore ed il suo spirito si unisce alle Villi, spettri delle fanciulle morte per amore, che di notte attirano gli amanti infedeli e li trascinano in un ballo infernale”.

L’opera fu preparata per concorrere ad un lavoro in un atto del premio Sonzogno.

Edoardo Sonzogno, rampollo di una ricca famiglia di industriali milanesi, scrittore egli steso, possedeva un teatro, era proprietario di un giornale e da poco aveva fondato una casa editrice musicale. Con questo concorso cercava di scoprire e di assicurare alla sua ditta nuovi talenti. Sei anni dopo Mascagni vinse questo concorso con la “Cavalleria rusticana”.

Il lavoro di Puccini non ebbe successo al concorso ma Fontana fece di tutto per far conoscere nel salotto di Marco Sala ad un pubblico scelto il lavoro “Le Villi”. Erano presenti a questa audizione anche Boito, Catalani e Giovanni Lucca. I brani cantati e suonati al pianoforte da Puccini fecero un’impressione così favorevole che seduta stante si decise di raccogliere i fondi necessari per mettere in scena l’opera. Giulio Ricordi si offrì a stampare gratis le copie del libretto.

Le Villi ebbe un successo sensazionale e l’effetto più immediato si può rilevare dall’annuncio della “Gazzetta Musicale” dell’8 giugno: “La Casa Ricordi notifica di aver acquistato la proprietà assoluta e generale della stampa, rappresentazione e traduzione per tutti i paesi dell’opera Le Villi  …..  Ha dato inoltre incarico al Maestro Puccini di scrivere una nuova opera su libretto di Ferdinando Fontana. La nuova opera sarà data alla Scala”.

LA MORTE DELLA MADRE ALBINA

Il 17 luglio 1884 morì a Lucca la madre Albina, malata da tempo. Sebbene attesa, questa morte addolorò profondamente Giacomo – più di quanto un evento così naturale colpisca normalmente un figlio. Della madre Puccini era stato il favorito e i loro vicoli particolarmente stretti e affettuosi. La scomparsa di Albina fu un colpo molto duro per la famiglia , che la saggia madre aveva conservato unita in modo esemplare.

La morte della madre è un avvenimento che incide profondamente la vita di tutti, che rende adulti: un distacco, una crescita estremamente dolorosi, tanto più in un artista, che ha sensibilità finissime e multiple: fili d’erba d’una stessa ceppa, che la falce morde e taglia con zanne di ferro.

Madre e figlio si somigliavano: le stesse palpebre pesanti sugli occhi dall’espressione velata, gli stessi lineamenti grevi, la stessa fisionomia solenne. Albina aveva un’aria di autorità che invece mancava a Giacomo e mancarono alla madre invece l’ironia e il sarcasmo molto marcati nel figlio.

La morte della madre fece probabilmente maturare un avvenimento che avrebbe potuto ritardare ancora : la fuga di Puccini con Elvira Gemignani. Alina morì senza sapere nulla della vicenda di Elvira, una vicenda che lei, nel lutto di una vedovanza lunga ed intemerata, avrebbe certo, gravemente e per più motivi, disapprovato.

LA PASSIONE PER ELVIRA

Non si sa quando Puccini l’abbia incontrata la prima volta, forse la conosceva già prima che sposasse Narciso Gemignani , un droghiere all’ingrosso. Ma fu il caso ad avvicinarli, come la paglia al fuoco. Elvira era già maritata e madre di due figli ed aveva una bella voce.      

Donna di eccezionale bellezza, alta e formosa, dal portamento nobile, un viso di proporzioni classiche, neri occhi brillanti, folti capelli di un biondo scuro che, secondo la moda del tempo, portava annodati in cima alla testa. In una parola Elvira era una donna che faceva colpo. Tuttavia non possedeva la vivacità necessaria a temperare la bellezza piuttosto severa dei suoi tratti e ad intonarsi all’esuberanza del suo giovane amante. Con il passare degli anni divenne d’umore sempre più difficile ed amaro, e s’abbandonò a crisi di scoramento. La sua unione con Puccini non fu felice.

Agli inizi il matrimonio di Elvira con Gemignani, a quanto dicono tutti, era stato felice. Ne erano nati due figli, Fosca e Renato. Elvira cantava, e sembra sia stato proprio l’insistenza del marito a indurla a prendere lezioni di canto e pianoforte da Puccini. Maestro e allieva si innamorarono perdutamente l’uno dell’altra e, poco dopo la morte della madre di Giacomo, Elvira lasciò il marito e raggiunse l’amante a Milano, prendendo Fosca con sé. Il figlio di Puccini, Antonio, nacque due anni più tardi; Il piccolo Antonio, Tonio per la famiglia, rimase illegittimo fino a diciotto anni, vale a dire fino alla morte del primo marito di Elvira, quando l’unione tra i suoi genitori poté essere legalizzata.

L’INCONTRO CON GIULIO RICORDI

In fondo il destino di Puccini potrebbe avere un nome solo: quello di Giulio Ricordi.

Giulio Ricordi rappresentava la terza generazione di una famiglia di origine spagnola che, con l’ingegno, l’iniziativa e il senso degli affari era riuscita a creare una delle più grandi case editrici musicali del mondo.

Giulio era uomo colto e versatile, aveva vaste conoscenze letterarie, parlava correttamente il francese, conosceva l’inglese e il tedesco e univa nella propria persona doti di compositore, poeta, scrittore e critico.

Non era facile essere accettato tra i compositori di Ricordi !  Avere i propri lavori da lui rappresentava un segno di distinzione di per se stesso. Tuttavia, una volta convinto dei meriti di un artista, Ricordi ne curava gli interessi (insieme con i propri) con tutta l’autorità di cui disponeva. Se Verdi occupava il posto più alto nella gerarchia dei compositori italiani viventi stabilita da Ricordi, Puccini si piazzava subito dopo: Ricordi capì subito che Puccini era di sangue reale , il “principe ereditario”.

Il primo merito di Ricordi fu quello di aver mantenuto su un piano di affettuosa e reciproca stima i rapporti con Verdi, che erano stati avviati dal nonno Giovanni, fondatore della Casa Editrice, e proseguiti dal padre Tito. Il secondo fu certamente quello di aver fatto credito a Puccini, di averlo sostenuto e guidato con una sollecitudine ed un affetto quasi paterni ed una certezza di successo, sicurezza che non ebbe mai incrinature.

L’OPERA  “EDGAR

Cinque anni passarono tra “Le Villi” e l’opera successiva di Puccini, “Edgar”.

Il lavoro per questa seconda opera cominciò nel 1884 e durò fino al 1888. Estremamente vulnerabile e sensibile alle critiche, Puccini si lasciava facilmente abbattere dalle avversità, cadde a quel tempo in uno stato d’animo che ostacolò molto il suo lavoro.

La trama dice che vi erano nelle Fiandre due giovani, Edgar e Fidelia, si amavano teneramente. Tigrana, donna corrotta e lasciva, rea di aver già sedotto Frank, fratello di Fidelia, riesce ad attrarre Edgar , che abbandona Fidelia e la segue, dopo aver ferito in duello Frank, che cercava di trattenerlo. I due amanti vivono nella ricchezza e nel vizio, finché un giorno, passando Frank alla testa di una compagnia di soldati sotto la finestra della loro cara, Edgar lo segue , deciso a riscattare in guerra, il suo passato. Nell’ultimo atto si assiste al funerale de Edgar, morto in battaglia. Fidelia piange l’antico amore, senza dar ascolto ad un frate, che denuncia le colpe di lui, false e vere. Anche Tigrana interviene, ma si lascia comprare dal frate per qualche gioiello. Il popolo, indignato dall’entità e dal numero delle colpe denunciate, vuol gettare il cadavere ai corvi, ma scopre che l’armatura sul catafalco è vuota. Edgar è vivo ed è lo stesso frate, che ha inscenato l’inganno. Torna dunque con Fidelia, vinto dalla fermezza e dalla castità del suo amore, ma Tigrana uccide la rivale, e , mentre Edgar piange, viene dalla folla trascinata a morte.

La fuga con Elvira, con la quale ora “viveva nel peccato”, com’era da aspettarsi provocò nella provinciale Lucca uno scandalo di prim’ordine. Giacomo si vide contro i suoi stessi parenti, che lo accusavano di aver gettato l’ignominia sul nome onorato di una famiglia del paese e della loro famiglia. Il prozio, il dottor Cerù, richiese immediatamente il rimborso con gli interessi della somma che gli aveva prestato durante gli studi al Conservatorio di Milano; sosteneva, non a torto invero, che se il giovane compositore poteva permettersi il lusso di un’amante, era anche in grado di saldare i propri debiti.

Per liberare il compositore dalle preoccupazioni materiali, a quel poco ch’egli aveva raggranellato con i diritti d’autore delle “Le Villi” il buon Ricordi aggiunse un anticipo mensile di 200 lire. L’anticipo avrebbe dovuto durare un anno; ma già sei mesi prima del termine Puccini pregò l’editore di allungare il tempo di quella che scherzosamente lui chiamava “la mia pensione”. Ricordi accondiscese; e in effetti Puccini continuò a ricevere una “pensione” fino all’epoca dell’opera successiva.

Vivere in ristrettezze con una moglie e due figli – la figliastra Fosca e Antonio – non era certo la situazione ideale per creare l’atmosfera adatta a un lavoro proficuo, con l’Elvira che lo punzecchiava continuamente ricordandogli che nello stesso lasso di tempo Verdi aveva scritto tre opere ( “Rigoletto, Trovatore e Traviata”).

Puccini si arrabattava intorno a “Edgar” apportando tagli e modifiche, mentre i concorrenti guadagnavano terreno.

Il gran tormento di un operista italiano fu sempre quello di cercare un nuovo libretto. Il motivo di tante incertezze consisteva, a parte la scarsa cultura dei musicisti italiani, nel fatto che non esistevano in Italia mode teatrali capaci di garantire stabilmente la necessaria cassa di risonanza a un argomento letterario, da ridurre a libretto operistico.

Alla Scala la prima dell’opera “Edgar” ebbe poco più che un successo di stima e solo altre due repliche. Per suggerimento di Ricordi nel 1889 Puccini rivide l’opera, restringendola da quattro a tre atti e anche la musica fu ritoccata in vari punti. In questa nuova versione l’opera ebbe un grande successo sia in Italia che all’estero.

Al periodo dell’”Edgar” appartengono anche tre brani autonomi, due “minuetti per quartetto d’archi” e il lavoro “I Crisantemi” scritto per la morte di Amedeo di Savoia.

MANON LESCAUT

Massenet aveva dato all’Opéra-Comique di Parigi una “Manon” basata sul celebre romanzo dell’abate Prévost. Puccini conosceva da anni lo spartito e il successo di Massenet forse lo invogliò a provarsi nello stesso argomento.

Questo era un soggetto con una trama, un’atmosfera e dei personaggi creati idealmente per il suo particolare talento. Era la prima volta nella sua carriera che seguiva il suo istinto e ciò lo rendeva sordo ai ripetuti moniti di Ricordi sul rischio di scrivere un’opera destinata a inevitabili paragoni con il capolavoro francese.

Puccini si recò a Vacallo, un piccolo paese vicino a Chiasso, sulla frontiera italo-svizzera dove aveva affittato un piccolo chàlet per lavorare in pace. Si era sistemato in una casa di tre stanze collocate l’una sopra l’altra: a pianterreno la cucina, al secondo piano la camera da letto per gli sposi, al terzo piano la camera di Tonio e Fosca. I lavoro si svolgeva nella camera da letto e quasi sempre di notte dato che Puccini aveva l’abitudine del lavoro notturno. Di fronte alla casa di Puccini, a Vacallo, abitava l’amico Leoncavallo e furono concordati gli orari per non disturbarsi a vicenda.

L’opera fu terminata nell’ottobre del 1892, cioè dopo tre anni, di contro al solo anno che il compositore nel suo giovanile ottimismo aveva programmato. Ben cinque letterati avevano lavorato alla stesura del libretto con litigi e baruffe con il musicista che non si sentiva mai accontentato. Indicare i nomi dei cinque procreatori – Leoncavallo, Praga, Oliva, Illica e Giacosa, per non parlare di Ricordi in funzione di levatrice – avrebbe prodotto un effetto comico sulla pagina stampata. L’opera fu dunque pubblicata semplicemente come “Manon Lescaut, dramma lirico in 4 atti. Musica di Giacomo Puccini”.

L’opera fu data per la prima volta al Teatro Regio di Torino e fu accolta con entusiasmo irrefrenabile, l’autore e gli artisti ebbero trenta chiamate. I giornali furono unanimi nella lode.

Manon Lescaut si fece immediatamente strada in tutta Italia e fin dal primo anno raggiunse città lontane come Buenos Aires, Rio de Janeiro, Pietroburgo, Monaco, Amburgo e Londra.

Alfredo Colombani del Corriere della Sera fece questo articolo sulla Manon Lescaut che merita riportare: “Se c’è tra i nostri giovani chi abbia compreso il motto famoso “ torniamo all’antico” , questo è il Puccini. La Manon si può dire un’opera di carattere classico. La musica vi ha infatti gli svolgimenti e lo stile dei grandi sinfonisti, senza rinunciare per questo all’espressione voluta del dramma. E senza rinunciare a quella che si suol dire italianità della melodia. Il Puccini è veramente un genio italiano. Il suo canto è quello del nostro paganesimo, del nostro sensualismo artistico.”

Puccini fu decorato della croce di cavaliere e il suo ex-maestro e direttore del Conservatorio di Milano Bazzini gli offrì il posto di professore di composizione. Venezia lo invitò ad accettare la direzione del Liceo Benedetto Marcello. Ma se le aule causavano a Puccini la “claustrofobia” quando era ancora alle prime armi, ch’egli rinunciasse alla libertà proprio quando il vento era mutato non era probabile. Inoltre i diritti d’autore di Manon Lescaut misero fine alle sue ristrettezze, assicurandogli da allora in poi una bella rendita regolare.

Rimborsò a Ricordi il debito, ricomprò la casa del padre a Lucca che aveva venduta e trovò infine una sede permanente sul Lago di Massaciuccoli, luogo che aveva visitato una volta, circa sette anni prima, e gli era subito piaciuto .

L’OPERA “LA BOHEME”

Questo lavoro, così come si presenta oggi, concisa, elegante, vivace, rapida, si articola in quattro atti e quattro scene: la Soffitta, il Quartiere latino, la Barriera d’Enfer e ancora la soffitta.

Il libretto è un miracolo d’equilibrio tra romanticismo e realismo, tra verità e fantasia.

Puccini finì la Bohème il 10 dicembre 1895, a mezzanotte dopo tre anni e nove mesi di lavoro. La scena della morte fu scritta fra i singhiozzi. Nel silenzio dello studio, riempito dagli ultimi accordi, cupi, profondi, disperati, Puccini piangeva perdutamente, senza ritegno e senza pudore, tutte le cose della sua vita, che non erano state, lo struggimento, la malinconia, gli incanti e la sua stessa giovinezza.

Con “La Bohéme” il teatro di Puccini entrava nella vita, tanto profondamente, da improntare di sé tutta un’epoca. Più vicino alla gente comune, che non quello di Verdi, insieme dramma e commedia musicale, rappresentava una scelta deliberata e responsabile, con quanto di rivoluzionario, di esplosivo poteva comportare: un fatto d’arte nuovo, modernissimo, sia pure inserito nella tradizione musicale italiana.

Puccini, così attento alle forze musicale che operavano allora in Italia ed in Europa, sentiva che in nessuna di esse poteva trovare appoggio, che doveva crearsi un linguaggio musicale tutto nuovo, aderente al suo tempo, espressione del suo particolare, personalissimo modo di sentire. Puccini, nelle opere e nella vita, amò soprattutto le donne. A loro affidò le sue più alte intuizioni musicali, le repentine esplosioni di gioia, la sottile disperazione.

Sulla tavolozza di Puccini, grande impressionista, gli strumenti prendono il posto dei colori. Il tocco, estremamente personale e soggettivo, fa sì che vivano perfino gli oggetti inanimati: il fuoco, l’acqua, un filo di sole, le foglie portate dal vento , come illusioni. Si ripete lo stesso effetto, che era stato della pittura, ma con un incanto in più, in una nuova dimensione: nessuna meraviglia, quindi, per il successo, che fa de “La Bohéme” l’opera più rappresentata nel mondo.

La Bohéme aveva rivelato Puccini al mondo: e a se stesso. Era stata un’opera felice, libera, spregiudicata, scritta nel dominio assoluto dei propri mezzi e della propria sensibilità, fuor dalle leggi e dalle regole: una commedia, un dramma, un discorso musicale, tenuto sullo stesso ritmo di quello parlato, del quale aveva rispettato tutti gli accenti, anche sintattici.

 Fu rappresentata per la prima volta a Torino, direttore Arturo Toscanini, il 1° febbraio 1896. La scelta di Torino, voluta da Ricordi contro il parere di Puccini, non fu felice, gli spettatori restando disorientati dalla novità, dall’audacia dell’opera e dal sua carattere episodico.  

La prima sera non fu un trionfo ma alla fine di febbraio l’opera aveva avuto ventiquattro repliche a teatro esaurito. Una esecuzione successiva a Roma e poi il trionfo a Palermo. Due mesi dopo Buenos Aires, Londra, Parigi e a seguire il mondo intero.

TOSCA

Fin dal 1889 Puccini pensava di scrivere un’opera basata su Tosca, il dramma dello scrittore Sardou. Forse lo scrittore francese negò in un primo tempo il permesso all’utilizzo del suo romanzo dato che a quel tempo Puccini era completamente ignoto in Francia.

Quando fu davvero possibile lavorare su quest’opera letteraria Puccini verificò come fosse facile farlo : bastava in sostanza ridurre e semplificare il dialogo e certe scene.

Giacosa era convinto che fosse assolutamente impossibile trarre un’opera da quel libro e dichiarava che “la Bohéme era tutta poesia e niente “fatto”, la “Tosca” era tutto “fatto” e niente poesia, con della marionette in luogo di personaggi.”

Puccini, di ritorno in Italia dalla visita a Sardon in Francia dove aveva avuto l’autorizzazione ad operare , si buttò a comporre nel suo eremo montano di Monsagrati.

Il 18 agosto aveva cominciato la scena finale del primo atto, il Te Deum, facendosi aiutare da don Pietro Panichelli, il “pretino” conosciuto a Roma il quale fornì una preghiera mormorata “con voce sommessa e naturale, senza intonazione, come sul vero in chiesa”.

L’azione della “Tosca” si svolge a Roma; e la scelta di Ricordi, suggerita da Illica, di dare la prima rappresentazione nella capitale, fu una scelta altrettanto appropriata quanto diplomatica, calcolata per lusingare il campanilismo e l’orgoglio dei romani.

Ricordi non aveva fatto i conti col tradizionale antagonismo che esisteva, e ancora esiste, tra il pubblico romano e quello dell’Italia settentrionale, né poteva prevedere che l’agitata atmosfera politica di quel periodo avrebbe contribuito alla straordinaria tensione che dominò in teatro la sera della prima.

Nello stipato Teatro Costanzi gli interpreti, alcuni dei quali avevano ricevuto minacciose lettere anonime, quella sera del 14 gennaio ebbero l’impressione di sedere su un barile di polvere, e non erano molto lontani dal vero. Infatti un quarto d’ora prima dell’andata in scena, un funzionario di pubblica sicurezza si precipitò nel camerino del direttore Mugnone e lo informò della minaccia, giunta all’orecchio della polizia, che durante l’esecuzione sarebbe stata buttata una bomba in teatro – In questo caso il direttore d’orchestra avrebbe dovuto attaccare immediatamente l’inno nazionale !

Non c’è dubbio che l’atmosfera eccezionale in cui “Tosca” ricevé il suo battesimo esercitò un’influenza negativa sulla qualità dell’esecuzione e tenne il pubblico coi nervi tesi. Tuttavia non basta questo a spiegare i commenti sfavorevoli di tanta stampa.

Anche Puccini pensava che la sua “Tosca” fosse stato un mezzo fallimento; ma come per la Bohéme, sia lui sia i critici furono smentiti dal pubblico. Al Costanzi si ebbero più di venti repliche a teatro esaurito e l’anno stesso l’opera andò in scena in molte città italiane. Ancora una volta fu Buenos Aires a darne la prima esecuzione all’estero seguita immediatamente da Londra.

MADAMA BUTTERFLY

Nel 1898 l’americano “Century Magazine” aveva pubblicato un racconto intitolato “Madama Butterfly” che trattava di una piccola geisha abbandonata da un ufficiale di marina americano, dal quale aveva avuto un figlio. L’autore di questo racconto riportava la notizia di un fatto realmente accaduto, come confermato dall’ambasciatore giapponese in Italia.

Puccini ottenne di poter portare quella storia in un’opera lirica e si mise subito al lavoro. Paragonato alle ardue fatiche imposte dalla stesura dei libretti per Manon e Bohéme l’adattamento di Madama Buttrefly procedé con notevole facilità.

L’orchestrazione del primo atto fu iniziata a Torre del Lago e il lavoro procedeva in modo facile e normale ma la macchina guidata dal suo chauffeur ebbe un pauroso incidente nel quale Puccini ebbe la tibia fratturata e contusioni varie.

La nebbia, in inverno, è molto fitta in quella zona vicino al lago, e ad una curva l’automobile uscì di strada, capottando. Il fracasso e la fortunata coincidenza che nelle vicinanze abitasse un medico, fecero sì che i soccorritori arrivassero subito, trovando Elvira e Tonio sotto choc e l’autista con un femore rotto. Ma Puccini non si trovava; alla fine, fu scoperto sotto la macchina rovesciata, in una provvidenziale cunetta del terreno, mezzo asfissiato dai vapori di benzina, e con una brutta frattura della tibia. Non era nemmeno in grado di parlare.

Solo dopo mesi l’artista riprese il lavoro, quando, lasciato il letto, poté di nuovo accedere al pianoforte  dove di solito lavorava.

“Madama Butterfly”  fu composta in poco più di tre anni, e meno ne sarebbero occorsi senza l’incidente.

La prima esecuzione avvenne alla Scala 1l 17 febbraio 1904 e Puccini era certo della buona riuscita del lavoro, tanto che per la prima volta aveva invitato ad assistere a questa opera sia le sorelle che il figlio. Non lo aveva mai fatto.

Si trattò invece di un fiasco assoluto e forse Puccini aveva commesso l’errore di impostare l’opera in due soli atti ma lunghissimi :  il primo di un’ora ed il secondo di un’ora e mezza. Purtroppo con la serrata schiera dei suoi successi, dalla Manon Lescaut in poi, Puccini era diventato una figura di importanza mondiale e perciò intensamente invidiata dai colleghi meno fortunati.

Le versione riveduta dell’opera andò in scena al Teatro Grande di Brescia e la serata segnò il trionfale successo del lavoro in cui Puccini aveva riposto una fiducia incrollabile. Non meno di cinque numeri dovettero essere bissati, e l’autore dovette comparire dieci volte alla ribalta.

LA FANCIULLA DEL WEST

Puccini era stanco di soggetti tragici, di grande opera e, come dopo la Tosca, si struggeva ora di provarsi nella commedia. E’ plausibile l’ipotesi che se non fosse stato per il suo soggiorno a New York, Puccini non avrebbe mai composto “La Fanciulla del West”.

Nel gennaio del 1908 informava la cara amica inglese Sybil, alla quale era particolarmente legato, che era riuscito a trovare un “bellissimo libretto”.

Quell’autunno doveva riservare a Puccini un grande dono, uno di quegli amori che nella vita restano memorabili ed il tempo e le vicende ritemprano , come fa l’acqua fredda con l’acciaio : quello di Sybil Seligman.

Puccini l’aveva conosciuta a Londra, in casa del maestro Francesco Paolo Tosi, famoso maestro di canto ed insegnante di musica della famiglia reale. Sybil, moglie di David Seligman, capo di una nota banca londinese, che presso Tosti studiava canto ed aveva, si dice, una splendida voce di contralto, faceva frequenti viaggi in Italia e teneva aperta la sua casa agli artisti italiani di passaggio.

Bella, intelligente, sensibilissima e innamorata dell’opera italiana: facciamo finta di credere ad una relazione platonica, con un tipo come Puccini assolutamente improbabile. Ma quale fosse la natura di questo amore, certo è che arricchì la vita dell’uomo e dell’artista come nessun altro, facendo luogo alla fiducia, alla stima, alla tenerezza, alla confidenza,sentimenti mai prima d’allora condivisi con una donna e, perfino, ad un diverso modo di comportarsi, d’essere, di gestire e di vestirsi: quello poi passato nel mito.

Puccini per lavorare si trasferì all’Abetone per il clima torrido in pianura ma appena ai primi di settembre era di nuovo nella sua Torre del Lago.

A Torre del Lago Puccini poteva darsi allo sport prediletto della caccia, ed alcune abitudini popolari toscane, fra cui primeggiavano la bestemmia e la coprolalia. Alcune sue opere furono concluse in una delle serate di baldoria con gli amici, tra il vociare di una briscola. Ma Torre del Lago presentava altri vantaggi. Anzitutto soddisfaceva l’esigenza di isolamento e , al tempo stesso, di compagnia non impegnativa che consentivano a Puccini di lavorare e di trascorrere piacevolmente le pause del lavoro. La caccia era gioco, rischio, avventura, gusto dell’imprevisto, ma soprattutto silenzio, meditazione, ascolto di sé e della propria voce ed infine naufragio nel mare dell’essere.

La notizia che l’opera era terminata fu data alla Sybil con l’annuncio : “la Fanciulla del West” è riuscita, per me, la mia migliore opera”.

La “Fanciulla del West” rappresentò per Puccini un trionfo quale non aveva mai conosciuto prima né conobbe in seguito in tutta la sua carriera. Quattordici chiamate salutarono la fine del primo atto e diciannove quella del secondo. Alla fine della serata si ebbero non meno di quarantasette chiamate: fuori di sé il pubblico gettava mazzi di fiori sul compositore e i suoi interpreti. Al Metropolitan l’opera si dette nove volte in quella stagione e ripeté il successo a Chicago e Boston. La prima esecuzione italiana ebbe luogo al Teatro Costanzi di Roma con la direzione di Toscanini.

Difficile dire quanto risultasse importante e commovente per il pubblico americano il fatto che Puccini, il più popolare, il più amato, il più caro dei compositori di musica, avesse scritto un’opera “americana” per soggetto e per ambiente, avesse innalzato ai fasti dell’epopea un momento della storia e della vita americana.

Difficile dire la gratitudine di centinaia di migliaia di poveri emigranti italiani, riparati in case di legno, isolati in miserabili quartieri, per questo grande artista, che dava loro, insieme al senso della patria, lontana e rimpianta, quello d’una dignità nuova, la speranza d’una convivenza diversa, dignitosa. Di questa suddivisione del suo prestigio e del suo genio in centinaia di migliaia di frammenti, in modo che a ciascun italiano ne toccasse un pezzettino, Puccini era ben conscio.

Di un successivo, favoloso pranzo offerto, fra cento altri, in suo onore dagli immigrati, ricordò poi sempre, con la magnificenza delle luci, dei gioielli, dei damaschi, dei quadri e degli oggetti d’arte di valore inestimabile, l’omaggio reso al “povero organista di Lucca”.

Puccini l’aveva ricevuto, come si conveniva, con cordiale modestia, ma , in fondo , con fierezza, come reso oltre che a lui, che l’aveva pagato con l’impegno di tutta la vita, all’arte, nella quale fermamente credeva, ed all’Italia, nella quale era nato.

UNA MOGLIE OTTUSA, TOTALEMENTE IGNORANTE IN TUTTO E CATTIVA

La pace di quei giorni A Torre del Lago però fu breve perché cominciò il primo atto di una tragedia domestica che si concluse con il suicidio di una fanciulla innocente e fece quasi naufragare il matrimonio di Puccini.

Elvira era sotto tutti gli aspetti una donna difficile – autoritaria, desiderosa di affermare se stessa, ostinata, superba, dogmatica nelle sue opinioni e cosciente della sua posizione come sposa di un uomo illustre. Il suo umore era incostante; le bastava una minima provocazione per abbandonarsi a osservazioni crudeli, con la sua voce sgradevole e aspra. Rigidamente conformista, ristretta di vedute, per quanto se ne sa non si interessava a  nulla che non riguardasse la sua famiglia. Era una moglie fedele e devota e una madre premurosa alla quale tutti i figli , specialmente Tonio, erano attaccati profondamente.

Vera donna toscana, Puccini le ispirò una grande passione e questo le infuse il coraggio di commettere l’unica infrazione della sua vita al codice morale della sua classe. Data l’educazione che aveva ricevuto, Elvira, almeno durante il primo periodo della sua unione con Puccini, deve aver provato un senso di profonda umiliazione e di vergogna.

Le vessazioni, le scortesie – Elvira viveva nell’Italia cattolica degli anni novanta e proveniva da un ambiente piccolo-borghese dal codice morale ristretto e rigido – non poterono non influire sull’animo suo.

E questo può anche spiegare perché il suo amore divenisse così possessivo e geloso. Donna di volontà molto energica, quasi virile, dominava il marito; e quando una donna con un carattere simile vive con uomo inferiore a lei per volontà, ma superiore sotto moltissimi altri aspetti, può rovinargli la felicità e la pace– ma non distruggerne il talento.

Nella sua concezione del mondo Puccini era un materialista con forte accento borghese. La sua filosofia della vita era un edonismo privo di scrupoli. Può darsi che ai suoi nervi bisognasse il solletico dei piaceri dei sensi: l’eccitazione della caccia, il brivido della velocità in automobile e in barca, le delizie della tavola, la ricerca dell’avventura amorosa. Sembra che ci sia stata in Puccini una straordinaria carica di sessualità animale. Non disse forse una volta : “Io sono innamorato sempre, innamorato come a vent’anni ! Il giorno in cui non lo sarò più, fatemi il funerale”.

Elvira era severa con i suoi dipendenti, i domestici non rimanevano a lungo al suo servizio. Doria Manfredi di Torre del Lago, una ragazza di sedici anni, entrò dai Puccini subito dopo l’incidente d’auto, in un primo momento come infermiera durante la convalescenza di Giacomo. Doria aveva accettato il posto contro il parere della famiglia, perché tutti a Torre conoscevano l’umore volubile e il temperamento geloso di Elvira, e sapevano quanto Puccini fosse sensibile alle grazie femminili.

Era a servizio già da cinque anni quando nel 1908 Elvira cominciò a sospettarla di quella che più tardi definì “condotta immorale” del marito. Pare che le prime insinuazioni si dovessero a uno di quei parenti di Elvira che mettevano sempre bocca nei fatti di casa con grande esasperazione di Puccini. Elvira cominciò a farle una guerra vera e propria, lanciandole accuse pazzesche, sostenendo di avere in mano le prove della sua cattiva condotta, e divulgando la voce di averla colta in flagrante con Puccini –

“Calunnia infame ! Io sfido chi può dire d’avermi veduto fare neppure un’innocente carezza a Doria !” scrisse Puccini all’amica  Sybil dopo la tragedia.

Doria fu licenziata, ma non contenta di questo Elvira andò in giro per Torre del Lago bollandola come un rifiuto della società, e giungendo nella sua furia persecutoria a chiedere al parroco, padre Michelucci, di intervenire perché la famiglia costringesse la ragazza a lasciare il villaggio.

L’acme di questo sordido dramma fu raggiunto quando Doria, completamente distrutta dalla persecuzione di Elvira, si avvelenò in casa della madre; e cinque giorni dopo morì fra dolori atroci.

Per mesi Puccini fu perseguitato dalla visione della povera vittima: “Non mi vuole uscire di mente – è una tortura continua – fu troppo crudele la sorte di quella povera ragazza”.

Ad un certo momento, sotto la spinta della necessità e, forse, dell’insofferenza, la famiglia si divise : Elvira ed i ragazzi vennero a stare a Firenze, in casa della sorella di lei, Giacomo a Lucca, in casa della sorella Ramelde.  Si incontravano con grande disagio e il turbamento per lo scandalo era ancora vivissima.  Puccini subiva anche la riprovazione degli amici e dei parenti, che l’accusavano d’aver gettato il disonore sulla famiglia.

Quale corso presero i rapporti tra Puccini ed Elvira dopo la tragedia ?  Dapprima egli pensò di separarsi del tutto da lei. Ma non era un uomo vendicativo, e dopo poche settimane già riteneva che una separazione temporanea sarebbe stata una punizione sufficiente per lei.

“LA RONDINE”

L’opera fu fatta con un contratto con impresari viennesi.

La trama narrava la storia di una donna di nascita aristocratica ma di reputazione dubbia – la rondine del titolo – che dopo un breve volo nel mondo del vero amore con un giovane povero tornava alla sua gabbia dorata, simboleggiata da un ricco banchiere parigino.

“La Rondine” è il solo lavoro teatrale di Puccini che non sia stato edito da Ricordi.

La prima di quest’opera avvenne a Montecarlo e il lavoro fu accolto con tutti i segni del successo trionfale; ci furono fiori e ovazioni e la stampa il giorno dopo parlò di “ricca ispirazione, freschezza e fascino giovanile”

IL TRITTICO :    “IL TABARRO” – “SUOR ANGELICA” – “GIANNI SCHICCHI” -

Puccini, lontano mille miglia dagli atteggiamenti e dalle esibizioni guerresche dannunziane, non era colpa sua se della guerra risentiva più gli orrori che gli entusiasmi, se, sottilmente moderno in questo, ne valutava la tragica assurdità.

Come uomo e come padre d’un figlio al fronte – Tonio, volontario, prestava servizio alla guida di un’autoambulanza - provava timore e pietà ; come artista mordeva il freno della forzata immobilità, si avvelenava dell’incomprensione, della cattiveria e dell’intolleranza altrui.

La scelta del “Tabarro” – cosa rarissima in Puccini - era stata immediata e definitiva. Ambientato su una chiatta, sopra la Senna e presso il molo, si rifaceva ad un  mondo di derelitti, mendicanti e scaricatori, gente miserabile, preda di vizi e di passioni elementari.

“Suor Angelica” narrava invece il suicidio di una giovane monaca, che era venuta a sapere, in convento, della morte del figlioletto, avuto in seguito ad una relazione clandestina.

“Gianni Schicchi” prendeva spunto da un  Canto dell’Inferno dantesco. Puccini era completamente preso nel dedicarsi a questo tipo di truffatore geniale, burlone e senza scrupoli, a questa farsa fiorentina.  Antico era in Puccini il desiderio di “ridere e far ridere”, specialmente in mezzo alla tragica realtà della guerra. In particolare “Gianni Schicchi”, contadino e campagnolo, che burlava l’aristocratica famiglia di Buoso Donati, lo divertiva per quella polemica di classe, tipicamente toscana, che pone innanzi a tutto i valori l’intelligenza.

Aveva ragione quel critico tedesco che dopo la prima del “Gianni Schicchi” in Germania, ebbe a dire che se Puccini non avesse scritto altro, sarebbe bastato questo piccolo, delizioso atto burlesco a dare la misura del suo talento, ad assicurargli la celebrità.

L’intenzione era di dare “Il Trittico” a Roma, al Teatro Costanzi. Ma la situazione italiana, così incerta, consigliò Puccini e Tito Ricordi ad accettare l’offerta del Metropolitan di New York .

Nel generale successo di tutto il trittico prevalse l’opera comica “Gianni Schicchi”.

 

TURANDOT

Dopo il “Trittico” , come sempre fra un’opera e un’altra, Puccini viveva  un periodo di dolorosa incertezza, di depressione fisica e spirituale.

La guerra (quindici le vittime nella piccola Torre del Lago e ottanta i morti di spagnola), l’impossibilità di acquietare, viaggiando, l’eterna inquietudine, avevano reso anche più cupo il suo umore.

Puccini meditava da tempo l’argomento di “Turandot” che gli era noto fino dal tempo del Conservatorio. Lo stesso tema era stato trattato da Giacosa e due anni prima a Zurigo s’era rappresentata, insieme all’Arlecchino , la Turandot di Busoni.

Semplificato, reso più agile, esaltato nei suoi valori umani, il soggetto di “Turandot” parve rappresentare quel che Puccini cercava: una cosa originale, fantastica e fiabesca da trattare in chiave simbolica, allusiva, modernissima.

Si tratta di una fiaba basata sull’antica leggenda della crudele principessa cinese il cui cuore si intenerisce per l’esperienza del vero amore.

IL CANTO DEL CIGNO

Fu verso la fine del 1923 che Puccini cominciò a lamentarsi di un mal di gola e di una tosse ostinata; ma avendo sofferto di questi mali più o meno per tutta la vita, vi dette poca importanza. Tuttavia la gola non gli dava pace.

Una prima avvisaglia dell’offesa alla sua gola è forse da ricercare nell’incidente del 1922 in Baviera, durante il viaggio in giro per l’Europa. A pranzo un osso d’oca gli si conficcò in gola con tal dolore, da rendere urgente l’opera del medico.

Sempre in preda a mali immaginari, tuttavia Puccini continuava ad ignorare il male, gravissimo, che aveva ora per davvero. Abituato al mal di gola, reso cronico dal fumo, un viziaccio che aveva preso nella prima gioventù, ed al fastidio della tosse, non si preoccupò particolarmente quando, verso la fine del ’23, questi sintomi si fecero allarmanti.

La signora Seligman fu la prima che sospettò la tremenda verità. Confidò i suoi timori al figlio Tonio che fece visitare di nuovo il padre dal medico di famiglia e da uno specialista di Viareggio. Tutti e due tranquillizzarono il paziente e la famiglia consigliando un assoluto riposo per un paio di settimane, astenersi dal fumo, e farsi rivedere dopo quella sosta nel lavoro.

A Salsomaggiore Puccini incontrò Toscanini al quale suonò quelle parti dell’opera che non aveva sentite. Toscanini fu profondamente colpito dall’aspetto di Puccini che sembrava depresso ed evidentemente si sentiva molto male: ma nessuno sospettò che l’ombra della morte fosse già calata su di lui.

Ciò che restava da fare per l’opera “Turandot” era il duetto d’amore e il finale dell’ultimo atto – cosa che Puccini riteneva questione di poche settimane.

Ma il dolore continuava ed allora Giacomo Puccini , senza farlo sapere a nessuno, consultò il dottor Torrigiani di Firenze, il quale dopo un accurato esame diagnosticò un papilloma sotto l’epiglottide ed espresse la speranza che non fosse di natura maligna.

Puccini tornò a casa molto turbato e, chiedendo a Tonio il significato di quel termine medico svelò la visita segreta allo specialista fiorentino. Dopo un secondo esame si seppe la cruda realtà: si trattava di un cancro alla gola in uno stadio così avanzato che un’operazione sarebbe stata inutile. Il consulto con altri quattro specialisti dette lo stesso risultato e fu consigliato un trattamento con i raggi X, il solo rimedio per arrestare il rapido progredire del tumore.

Questo genere di cura era allora ai suoi inizi e due sole sedi cliniche in tutta Europa lo avevano fino ad allora praticato. Fu scelto Bruxelles.

Prima di partire il nostro Puccini vide ancora Toscanini per un’altra discussione sulla prossima prima dell’opera. Fu in quell’occasione che Puccini avrebbe pronunciato la tragica profezia: “L’opera verrà rappresentata incompleta, e poi qualcuno uscirà e dirà al pubblico : “A questo punto il Maestro è morto”.

Il compositore aveva preso con sé gli abbozzi del duetto d’amore e del finale dell’ultimo atto – trentasei pagine in tutto – sperando di completarli a Bruxelles. Durante il viaggio sputò sangue in abbondanza ma finse di non dare importanza a questo sintomo allarmante.

Il trattamento del dottor Ledoux si doveva svolgere in due tempi; Puccini ne dette una descrizione particolareggiata in una lettera all’amico Angiolino Magrini:

Caro Angiolino, grazie delle sue buone e affettuose lettere, sono in croce come Gesù ! Ho un collare che è una specie di tortura. Radio esterno, per ora, poi spilli di cristallo nel collo e buco per respirare, anch’esso nel collo. Non lo dica però né a Elvira, né a nessuno. Questo buco, con un cannello di gomma o d’argento, non lo so ancora, mi fa orrore. Dicono che non soffrirò niente, e devo farlo per otto giorni, per lasciare tranquilla la parte che deve guarire. Poiché respirando per le vie ordinarie si agita. Così dovrò respirare dal cannello, Dio mio che orrore ! Ricordo uno zio del Tabarracci che portò il cannello per tutta la vita. Io, dopo otto giorni, ritornerò a respirare dalla bocca. Che roba ! Dio mi assista. E’ una cura lunga – sei settimane – e terribile. Però assicurano guarigione. Io sono un po’ scettico e ho l’animo preparato a tutto. Penso ai miei, alla povera Elvira. Dal giorno della partenza ad oggi il mio male è peggiorato. Spurgo sangue vivo e nero a boccate la mattina. Ma il medico dice che non è nulla e che ora debbo essere tranquillo perché la cura è cominciata. Vedremo, caro Angiolino.

Durante il primo stadio del trattamento Puccini non era costretto a letto e aveva il permesso di lasciare la clinica. Andò a sentire la Buttrerfly , con la Sybil sempre devota, l’ultima musica che sentì.

Le applicazioni esterne di radio sembrarono dapprima portare ad un certo miglioramento e le speranze cominciarono a risorgere. Ma la mattina del 24 novembre il dottor Ledoux  procedé alla seconda parte del trattamento e le cose cambiarono.

La gola di Puccini fu trapassata da sette aghi inseriti nel tumore. L’operazione durò tre ore e quaranta minuti, ma lo stato del cuore permise soltanto un anestetico locale. Nei tre giorni successivi le condizioni del malato consentirono un cauto ottimismo. E’ vero che era depresso. Soffriva le pene dell’inferno per la ferita, era tormentato dalla sete, si nutriva con liquidi somministrati dal naso, non poteva parlare; ma il dottor Ledoux era soddisfatto dei progressi del paziente e fidava che la sua robusta costituzione avrebbe retto. A una richiesta di notizie da parte del Théàtre de La Monnaie si spinse a rispondere: Puccini è fuori pericolo.

Nel pomeriggio successivo Puccini purtroppo ebbe un collasso mentre stava in poltrona: contro tutte le aspettative, il cuore non aveva retto. Gli aghi furono tolti subiti e gli fu praticata un’iniezione nella speranza che la crisi fosse passeggera. L’agonia durò dieci ore, durante le quali l’ambasciatore italiano lo andò a trovare in clinica e il Nunzio apostolico, mons. Micara, gli impartì i sacramenti. Era ancora cosciente. Morì il mattino seguente, era il 29 novembre 1924.

La prima della “Turandot” fu sul punto di andare a picco per un grosso scandalo politico. Il partito fascista doveva festeggiare a Milano la ricorrenza del 21 aprile con una manifestazione  alla quale avrebbe preso parte Mussolini, venuto apposta da Roma.

La direzione della Scala considerò perciò suo dovere invitare il Duce ad onorare della sua presenza la prima di “Turandot”. I sentimenti antifascisti di Toscanini erano ben noti. Mussolini dichiarò che sarebbe intervenuto a condizione che la serata si aprisse con l’inno fascista.

Ma non aveva fatto i conti con l’incrollabile testardaggine di un dittatore musicale.

Informato del desiderio del Duce, Toscanini pose alla direzione della Scala un secco ultimatum : o niente inno o si trovassero un altro direttore.

E vinse la partita : né GiovinezzaDuce

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