SETTEMBRE 2012 - GALILEO

notizia pubblica il 26/09/2012 - ultimo aggiornamento del 26/09/2012

 CASA CULTURALE DI SAN MINIATO BASSO

SEZIONE SOCI COOP DEL VALDARNO INFERIORE

 

SETTEMBRE  2012

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sezione letture

 

GALILEO


 

Brevi note sulla via di Galileo Galilei tratte dai libri di Ludovico Geymonat e Antonio Banfi

 

 

INIZIO CON LO STUDIO, COATTO, DI MEDICINA E FILOSOFIA

Il padre di Galileo, Vincenzo Galilei, aveva una cultura assai viva e ricca di molteplici interessi. Valentissimo suonatore di liuto era anche uno studioso della musica, buon conoscitore delle lingue classiche e della matematica.

Iscrisse nel 1581 il figlio Galileo, all’età di sedici anni, presso l’Università di Pisa nella facoltà “degli artisti” come allievo di medicina. Il giovane però non rivelò per questi studi alcun serio interesse e nel 1585 abbandonò la facoltà senza conseguire alcun titolo.

Intanto nel 1583 il giovane aveva chiesto all’amico di famiglia, il matematico Ostilio Ricci, di impartirgli lezioni di matematica, naturalmente all’insaputa del padre.

I progressi in questo campo furono grandissimi ed allora il padre, verificata di persona la situazione, dovette arrendersi, concedendo al giovane di dedicarsi sempre più intensamente alla scienza preferita.

Il Ricci aveva una aperta predilezione per Archimede in cui vedeva la perfetta realizzazione della mentalità matematico-sperimentale e seppe trasmettere all’allievo l‘interesse per l’osservazione, la misura ed il disegno. Gli insegnò a vedere nella matematica un potentissimo strumento per conoscere la natura, per coglierne i segreti più intimi, per tradurre i processi naturali in discorsi precisi, coerenti, rigorosamente verificabili.

LE OSCILLAZIONE DELLA LAMPADA DEL DUOMO DI PISA

La prima scoperta di Galileo avvenne, come da leggenda, nel 1583 osservando le oscillazioni pendolari di una lampada nel duomo di Pisa. Spirito di osservazione che lo attirerà con entusiasmo via via crescente verso il tipo di ricerche ben determinate, tipico del matematico. 

E una volta stabilito l’isocronismo delle piccole oscillazioni si sforzerà immediatamente di applicarlo alla misurazione della frequenza del polso e di altri brevi intervalli di tempo. Vero segno che sentiva fin da allora la tendenza a trasformare le scoperte scientifiche  in principi pratici, utili all’uomo.

Facendo cadere dalla Torre di Pisa corpi di diverso peso e studiando le modalità di caduta arriva alla conclusione importante che “nella caduta naturale dalla quiete gli spazi, per tutti i gravi , di qualunque peso e materia, stanno come i quadrati dei tempi

INVENZIONE DELLA BILANCETTA IDROSTATICA

Nel 1586 inventò la bilancetta idrostatica per la determinazione del peso specifico dei corpi. Era il sistema per conoscere se un metallo, per esempio l’oro,  conteneva oppure no impurità. Risolse anche il problema già affrontato da Aristotele per determinare il peso dell’aria scaldando un fiasco di vetro per farne uscire l’aria e poi richiuse il rubinetto. Prima e dopo l’operazione la boccia di vetro rivelò pesi diversi : la differenza corrispondeva al peso dell’aria.

Gli idraulici del palazzo ducale avevano il problema di far salire l’acqua ai piani superiori del palazzo. Galileo interpellato dimostrò che l’acqua non poteva salire oltre 32 piedi (10,33 m3tri) perché l’aria, premendo sull’acqua, la lasciava salire nei tubi fino a che il proprio peso si equilibrava con quello del liquido. Evangelista Torricelli, allievo e grande amico di Galileo, nel 1643 riprese questi studi e scoprì il barometro.

Il nostro scienziato studiò anche per determinare il baricentro dei corpi. Queste scoperte gli fecero grande amico Guidobaldo del Monte che lo aveva spinto a tal genere di ricerche e questo suo grande estimatore in seguito lo aiuterà concretamente più volte.

CATTEDRA DI MATEMATICA NELLA SUA PISA

Galileo cercava affannosamente una sistemazione che gli permettesse di proseguire con serenità i propri studi. Stava impartendo lezioni di matematica a Firenze e Siena ma comprendeva che solo un insegnamento regolare gli avrebbe procurato l’indispensabile autonomia finanziaria.

Cercò inutilmente di essere assunto nella università di Bologna e la sua richiesta fu respinta anche da quella di Pisa dove invece l’anno successivo ebbe infine un contratto triennale per la cattedra di matematica, con lo stipendio non eccelso di sessanta scudi l’anno, quando il suo collega di medicina ne percepiva duemila.

Fu il granduca Ferdinando I a concedergli l’ambito posto su raccomandazione del cardinale Francesco del Monte, fratello del matematico Guidobaldo del Monte che ben lo conosceva e stimava.

Galileo rientrava nel 1589 con la carica di professore in quella medesima Università dalla quale si era allontanato quattro anni prima senza avervi condotto a termine il corso di studi in cui il padre l’aveva iscritto.

Continuò nei tre anni di permanenza a Pisa anche ad interessarsi di letteratura come aveva già fatto a Firenze e partecipò con grande interesse al dibattito allora di grande attualità circa la superiorità artistica dell’Ariosto o del Tasso, schierandosi decisamente in favore dell’autore dell’Orlando Furioso.

CARICO FAMILIARE TROPPO ONEROSO

A moderare la spensieratezza della vita iniziata a Pisa arrivò la morte del padre e all’improvviso sulle spalle del figlio primogenito cadde il peso della numerosa famiglia, madre, fratelli e sorelle.

Galileo si trovò nella assoluta necessità di aumentare i miseri introiti e tornò a rivolgersi all’autorevole amico Giudobaldo del Monte che ancora una volta intervenne con prontezza e generosità in suo aiuto.

Lo raccomandò caldamente presso lo Studio di Padova dove si era liberata la cattedra di matematica e quindi approdò a quella università.

PROFESSORE  A PADOVA

Nel settembre del 1592 Galileo si presentò direttamente alle autorità della Repubblica Veneziana e seppe subito conquistarsi così viva ed immediata simpatia che dopo pochi giorni ottenne la nomina desiderata con un contratto di quattro anni, lo stipendio triplicato rispetto a Pisa e con buona speranza di successivi aumenti sull’esempio di ciò che era stato concesso al suo antecessore Moletti.

I diciotto anni trascorsi a Padova, come lui stesso scriverà, non senza un velo di nostalgia, furono senza dubbio i più belli della sua vita.

Trovò intorno a sé un ambiente molto vivo e stimolante, atto a far sorgere negli animi un sereno ottimismo e una entusiastica fiducia nelle capacità realizzatrici dell’uomo.

Più di ogni altra cosa si rivelava feconda l’amplissima libertà di pensiero garantita dalla Repubblica di Venezia a tutti gli studiosi.Oltre ai circoli culturali padovani Galileo soleva anche frequentare quelli di Venezia, ove si recava assai spesso, entrando in relazione con le famiglie più influenti della Repubblica e in particolare con i giovani aristocratici dalla mentalità più aperta, che apprezzavano in sommo grado il suo spirito acuto e spregiudicato e la sua conversazione sempre viva e scintillante.

Il nostro scienziato sentì il bisogno di annettere al proprio Studio in Padova una piccola officina con un operaio fisso. L’officina veniva utilizzata, oltre che ad eseguire nuove ricerche sperimentali, anche a produrre apparecchi matematici (squadre, compassi, bussole ecc.) il cui commercio serviva a Galileo per integrare il proprio bilancio, ancora troppo magro. Ricorreva inoltre in larga misura all’insegnamento privato, trasformando la propria abitazione in una specie di pensione per studenti ai quali venivano impartite lezioni pressoché giornaliere.

Ad ogni rinnovo di contratto con l’Università il Nostro ebbe sempre un aumento di stipendio passando dai sessanta iniziali ai 320 fiorini annui, poi a 520 e infine a mille fiorini nel 1609.

Fondò una sua famiglia, sia pure irregolare, unendosi con la veneziana Marina Gamba che, venuta a stabilirsi a Padova, non però nella medesima casa di Galileo, gli fu compagna affezionata per più di dieci anni.

Ebbero tre figli, Virginia, Livia e Vincenzio. Si separarono quando lo scienziato si trasferì a Firenze e la Gamba si sposerà presto, in regolare matrimonio, con Giovanni Bartoluzzi.

La separazione fra loro ebbe un carattere molto amichevole ed intrattennero sempre rapporti assai cordiali.

TIPO DI INSEGAMENTO DI GALILEO A PADOVA

Anche se già in dichiarazioni private si era dichiarato convinto della veridicità del copernicanesimo Galileo dedicò i vari corsi universitari allo studio del sistema tolemaico perché riteneva compito del professore, in una struttura pubblica, di esporre agli allievi gli argomenti fissati dai programmi fissati dalla Direzione dell’Università e non già divulgare le proprie opinioni scientifiche personali.

Il primo pubblico accenno al copernicanesimo venne pronunciato dal nostro scienziato verso la fine del 1604 in tre pubbliche lezioni cui assistette un uditorio eccezionalmente numeroso. Ciò avvenne quando commentò l’apparizione di una nuova stella che rimase visibile per diciotto mesi, evento osservato anche dal frate Ilario Altobelli e da Baldassarre Capra.

Galileo disse che la nuova stella doveva venir considerata come una validissima prova a favore della teoria copernicana. 

L’aristotelico Antonio Lorenzini si affrettò a voler subito confutare quanto detto da Galileo in quelle lezioni e il Nostro, che non era certo un uomo da ritirarsi di fronte alle polemiche, non replicò perché all’epoca nutriva seri dubbi sia sulla natura della nuova stella sia sulla possibilità di ricorrere ad essa per dimostrare che Copernico diceva il vero.

Galileo era certo della verità di questa nuova teoria ma non delle prove che attualmente era in grado di addurre a suo favore. Preferì attendere pazientemente, cercando qualche nuova via, capace di condurre a fatti scientificamente più persuasivi. Questa via gli verrà indicata dalla scoperta del cannocchiale.

SCOPERTE DI GALILEO IN QUESTO PERIODO

Nella piccola officina che aveva impiantato nella propria casa il più notevole apparecchio inventato fu il “Compasso geometrico-militare” basato sulle grandezze proporzionali. Con lo stesso si potevano eseguire numerose operazioni geometriche e aritmetiche sfruttando la proporzionalità tra i lati omologhi di sue triangoli simili.

Si occupò pure dei fenomeni termici inventando un apparecchio per la “misura della temperatura”, un termometro non molto preciso rispetto agli attuali ma molto utile e rivoluzionario per quei tempi.

Nel 1609 comincerà infine a fabbricare i primi esemplari del famoso “Cannocchiale”. La nuova invenzione rappresenterà il coronamento dell’abilità pratica acquisita in lunghi anni di attento e intelligente lavoro manuale.

Le indagini di gran lunga più fruttuose dal punto di vista scientifico di quel periodo furono senza dubbio quelle sui fenomeni meccanici ; Il suo lavoro “Trattato di meccaniche” riassume questi studi.

IL CANNOCCHIALE CHE MOSTRERA’ NUOVI MONDI

Nel 1609 giunse agli orecchi di Galileo la notizia di un curioso apparecchio che faceva vedere gli oggetti più vicini.

Già un artigiano italiano aveva costruito qualcosa del genere nel 1590 ed anche modesti occhialai dei Paesi Bassi avevano scoperto lenti che avvicinavano le cose e questi ultimi avevano anche cercato di sfruttare l’apparecchiatura presentandola a principi e governi per uso militare, ma i successi furono decisamente scarsi.

Galileo capì subito l’importanza di questo principio  di usare lenti per osservare le cose e provò per questo strumento il più vivo interesse.

In soli sei giorni costruì una apparecchiatura con notevoli perfezionamenti rispetto agli apparecchi già esistenti e, con spregiudicatezza che può anche lasciarci un po’ perplessi, offrì l’apparecchio come sua invenzione alla Repubblica di Venezia.

La presentazione avvenne il 25 agosto del 1609 e dall’alto del campanile i rappresentanti del Governo veneziano ed i maggiorenti della città osservarono sbalorditi in una nuova versione ravvicinata la sottostante loro bellissima città.

E’ bene precisare che il compito della storia non consiste nel far colpa a uno scienziato di non esser giunto ad alcune scoperte  cui pervennero prima altri. Suo compito è di stabilire con esattezza i contributi di ciascuno di essi e le vie di indagine da loro praticate !

Il grande interesse del cannocchiale va detto che “sta nel processo con cui il mondo scientifico, che dapprima non voleva saperne di questa novità, ha poi finito per riconoscere in essa un vero tesoro.

A Galileo fu naturalmente offerto dal Doge di Venezia di rinnovargli, a vita, il contratto di insegnamento con l’aumento immediato dello stipendio da cinquecento a mille fiorini d’oro annui.

QUELLO CHE SCOPRI CON IL CANNOCCHIALE

Galileo non possedeva una conoscenza scientifica rigorosa delle leggi della riflessione e non poteva fondare la propria fiducia nel cannocchiale su una solida base teorica. La prima fiducia fu qualcosa di istintivo, scaturito più dall’entusiasmo che da una seria riflessione. Solo in seguito divenne una fiducia fondata sui fatti e cioè dalla constatazione, migliaia di volte ripetuta, che gli oggetti apparivano identici se osservati di lontano attraverso il cannocchiale come da vicino ad occhio nudo.

Lavorò tutto il 1609 a lavorare per la costruzione di cannocchiali sempre più perfetti.

Nel gennaio dell’anno successivo poteva annunciare che la luna assumeva la forma di corpo similissimo alla terra, con monti assai più alti e la Via Lattea una congerie di minutissime stelle.

Osservò le macchie solari ma non si rese subito conto della loro importanza, tanto che si limitò a mostrarle solo a pochi amici.

Scoprì lo strano aspetto di Saturno (il più alto dei pianeti) che gli appariva costituito di tre stelle  e scoprì le fasi di Venere perfettamente analoghe a quelle della luna. La scoperta delle fasi di Venere provava, senza possibilità di contraddizione, che il pianeta si muoveva intorno al sole ed era un corpo opaco.

 

E scopriva i satelliti di Giove  (prima tre e poi quattro).

Donò al Granduca Cosimo II de’ Medici un cannocchiale “assai buono” e gli prometteva di farlo presto seguire da un altro ancora migliore. Ma l’omaggio più cospicuo per i reggenti in Toscana era stato quello di intitolare alla Casa del Granduca le quattro lune di Giove, chiamandole “pianeti medicei”.

La meraviglia e il succedersi di tante novità sorprese tutto il mondo colto dell’epoca, e la fama del grande scienziato non tardò a diffondersi anche nei paesi più lontani.

ABBANDONA PADOVA PER TORNARE ALL’UNIVERSITA’ PISANA

Galileo era da qualche tempo decisamente stanco della sede di Padova dove - malgrado i vari aumenti di stipendio – riceveva una remunerazione troppo inferiore alle esigenze sue e della pesante famiglia e dove era costretto a spendere troppo tempo nelle lezioni, sottraendolo alla pura ricerca scientifica.

Aveva iniziato da alcuni mesi alcune riservatissime trattative con un suo antico allievo per ottenere in Toscana una sistemazione che finalmente lo liberasse sia dalle ristrettezze finanziarie sia dall’impegno delle lezioni.

Cosimo II si era mostrato molto grato per la dedica dei satelliti di Giove alla sua Casa medicea e aveva regalato al suo scopritore una preziosa collana d’oro con medaglia.

 Quando venne a sapere che lo stesso sarebbe ritornato volentieri nella sua regione deliberò di assumerlo come “Matematico primario dello Studio di Pisa e Filosofo del Ser.mo Gran Duca” senza obbligo di leggere le lezioni all’Università e senza l’obbligo di risiedere nello Studio o nella città di Pisa. Lo stipendio sarebbe stato di mille scudi l’anno, moneta fiorentina.

UN’ AZIONE UMANAMENTE DEPLOREVOLE VERSO LA PROPRIA FAMIGLIA

L’improvvisa partenza di Galileo dispiacque molto ai Signori di Venezia ma non fecero nulla per trattenerlo : anzi si mostrarono con lui gravemente offesi.

Il trasloco da Padova a Firenze segnò la separazione definitiva di Galileo dalla madre dei suoi figli. Lasciò per qualche tempo il piccolo Vincenzio alla madre Maria Gamba mentre le figlie cercò di collocarle in casa della nonna.

La sistemazione delle due bambine di 13 e 12 anni con la madre di Galileo non fu però possibile per il carattere impossibile della vecchia.

Galileo non seppe allora trovare altra soluzione che quella di chiuderle in un convento !

Fu un comportamento indubbiamente crudele e non curante dei desideri delle bambine.

La prima, Virginia, accetterà con spirito rassegnato la vita impostale dal padre e anzi rivelerà una vera vocazione religiosa, mentre la seconda ne soffrirà moltissimo e acquisterà un carattere acido e insopportabile.

Sotto l’impulso della restaurazione cattolica e col beneplacito degli ultimi Granduchi, erano sorti in Toscana numerosi monasteri a cui venivano spinti non solo i chiamati da una vocazione d’opera o di ascesi, ma anche moltissime vittime inconscie di essere gettate in un luogo di rifugio e di isolamento. Il grande numero dei conventi e l’accorrere sempre più frequente di novizi avevano presto resa molto precaria la situazione di molti di tali ritiri. Non era certo un’eccezione il monastero di Arcetri dove attraverso le lettere di S. Maria Celeste  intravediamo la triste desolazione delle sue celle, anche aperte senza riparo al vento ed una forte penuria del cibo cui solo provvedevano i doni delle famiglie o, più rari, quelli della Granduchessa.

IL CANNOCCHIALE STAVA OSCURANDO ARISTOLE E TOLOMEO

Spesso lo sviluppo della scienza incontrò i più pericolosi ostacoli proprio in certi pregiudizi che, una volta superati, appaiono semplici banalità.

Galileo si rese conto che le sue novità avrebbero cozzato inevitabilmente con le sacre scritture e allora, appena giunto a Firenze, chiese al Granduca il permesso di compiere un viaggio scientifico a Roma.

Il grande entusiasmo del momento che si era verificato in ogni nazione nei suoi confronti lo portava a prevedere che gli sarebbe stato abbastanza facile strappare  - con la forza persuasiva della sua parola e del suo cannocchiale – l’assenso pieno e completo alle grandi novità astronomiche, non solo da parte dei Gesuiti, ma di tutte le più alte gerarchie della Chiesa.

Il Nostro scienziato arrivò a Roma il primo aprile 1611.

Venne subito ricevuto con la massima cortesia da vari cardinali e poi dallo stesso pontefice Paolo V , che , per colmo di benevolenza, non gli permise di rimanere inginocchiato durante l’udienza come era prescritto dal cerimoniale in uso.

Grandi onori gli furono pure tributati dal Principe Federico Cesi che volle subito iscriverlo come facente parte dell’Accademia dei Lincei e d’allora in poi le lettere di Galileo porteranno sempre la firma “Galileo Galilei, Linceo”.

In realtà i Padri Gesuiti si accordavano con Galileo solo nel riconoscere la verità di fatto delle osservazioni astronomiche da lui eseguite, non nella interpretazione delle stesse.

Per spiegarci la resistenza dei Gesuiti a seguire Galileo anche nell’interpretazione delle nuove scoperte astronomiche, bisogna ricordare che loro erano i più ligi custodi dell’ortodossia cattolica, e quindi intendevano usare la propria competenza scientifica soprattutto ad un fine : quello di impedire che la scienza moderna assumesse un qualsiasi significato contrario al dogma.

Il dogma costituiva il perno centrale di tutta l’organizzazione culturale cattolica. Non rimaneva dunque altra scelta possibile : o trovare un accordo tra teoria copernicana e dogma cattolico , o rinunciare all’appoggio della Chiesa alla nuova scienza con enorme danno del progresso scientifico.

Cominciò per primo Nicolò Lorini a sferrare un duro attacco a Galileo con la sua predica tenuta il primo novembre 1612. Il secondo attacco fu pronunciato da Tommaso Caccini nella quarta domenica d’avvento del 1614.

Nella seduta del Sant’Uffizio tenuta il 25 novembre 1615 si decide per il momento di non prendere nessun provvedimento, ma di esaminare il libro di Galileo sulle macchie solari per venire in possesso di tutti i dati riguardanti il delicatissimo argomento.

Mentre nel 1612 non aveva preso sul serio le pubbliche denunce del Lorini, nel 1615 il nostro scienziato si rese conto che la manovra avversaria era molto pericolosa e andava molto al di là della sua singola persona.

Egli aveva sempre fatto molto assegnamento sul proprio prestigio personale e sull’efficacia delle proprie parole. Avrebbe voluto recarsi subito a Roma, al fine di illustrare direttamente le ragioni scientifiche del copernicanesimo ma una grave malattia gli fece purtroppo rinviare il viaggio di parecchi mesi.

IL PROCESSO E LA SENTENZA

Riuscì finalmente a partire ed era pieno di fiducia, sia per l’intrinseco valore della teoria che andava a difendere, sia per gli autorevoli appoggi che si era procurato.

Il Granduca stesso aveva infatti scritto per lui calde parole di raccomandazione a parecchi alti prelati e al proprio ambasciatore a Roma, Piero Guicciardini, dandogli anche ordine di ospitare Galileo in alcune stanze “onorevoli e comode dell’ambasciata e di “provvedere di vitto conveniente per lui, uno scrittore, un servitore e una muletta”.

Tutte le testimonianze ci dicono concordemente che il grande scienziato si accinse alla propria opera con tutte le energie di cui disponeva, oltreché con la piena consapevolezza della posta in gioco. La sua fu un’azione franca, aperta, senza reticenze. Per illustrare le ragioni della nuova teoria egli affrontò coraggiosamente le riunioni più difficili, facendo ovunque “discorsi stupendi”, sempre vivacissimi sia nella difesa sia nell’attacco, sempre ricco di argomenti vecchi e nuovi.

Di una cosa, però, il Nostro non si rese sufficientemente conto ;  che non si trattava soltanto di vincere un accanito odio di frati !  Infatti dietro i frati stava una Chiesa la quale aveva paura di un rinnovamento sostanziale e profondo.

La sentenza del Sant’Uffizio fu comunicata a Galileo in forma riservata, durante il breve periodo intercorso fra il giorno di emissione della sentenza e quello del decreto della Congregazione dell’Indice.

Il 25 febbraio 1616 il pontefice Paolo V ordinò al cardinale Bellarmino di convocare presso di sé Galileo e di ammonirlo ad “abbandonare l’opinione censurata”.

L’ordine proseguiva poi dicendo che, “se egli avesse ricusato di obbedire, il Padre Commissario avrebbe dovuto intimargli in forma ufficiale – davanti ad un notaio e a testimoni – il precetto di astenersi completamente dall’insegnare o far oggetto di dimostrazione tale dottrina o dal trattare di essa; infine se si fosse ricusato di acconsentire lo si sarebbe dovuto incarcerare”.

Galileo volle rimanere a Roma ancora tre mesi dopo la pubblicazione del decreto della Congregazione dell’Indice, per rendersi conto di persona della severità con cui la Chiesa intendeva applicare il deliberato del Sant’Uffizio e per tentare – per mezzo delle sue potenti amicizie – di salvare ancora qualcosa.

Giunse anche a farsi ricevere dal Papa stesso, che gli concesse, sì, una “benignissima udienza” e lo assicurò del suo favore personale, ma non accennò ad alcuna concessione sulle questioni di principio.

GLI ANNI DEL SILENZIO

Tornato a Firenze nel giugno del 1616, Galileo si ritirò nella villa Segni a Bellosguardo, applicando tute le proprie energie ad accurate osservazioni astronomiche.

Provvide a condurre a termine la sistemazione della propria famiglia: le due figlie pronunciarono i voti nel monastero di San Matteo in Arcetri e il figlio Vincenzio venne riconosciuto e legittimato.

Le osservazioni astronomiche più curate erano quelle rivolte ai satelliti di Giove. Galileo si proponeva , con esse, di giungere alla misura esatta dei loro periodi; e ciò, non solo per l’evidente interesse scientifico di tali misura, ma anche per un fine squisitamente pratico, per la determinazione della longitudine di qualsiasi punto della terra, metodo che, essendo applicabile anche in mare, avrebbe permesso alle navi di individuare la posizione via via occupata lungo la propria rotta.

Su questo argomento però il Nostro stava perdendo di vista l’aspetto pratico, quello di verificare l’efficienza del metodo proposto nelle navi in movimento. Finirà così di scendere nella tomba con l’illusione, mai spenta, di portare con sé un prezioso segreto, ripetutamente, ma sempre invano, offerto ai suoi contemporanei.

IL MANIFESTO COPERNICANO

Nel 1621 era accaduto un fatto assai triste per Galileo: la morte del suo protettore Cosimo II.

Successe il figlio Ferdinando II in giovanissima età, sotto la tutela della madre Maria Maddalena d’Austria e della nonna Cristina di Lorena.

La debolezza del nuovo principe avrà, dodici anni più tardi, gravi ripercussioni sugli sviluppi della controversia fra Galileo e il Sant’Uffizio.

Nel 1623 si verificò, invece, un evento che fece sorgere improvvisamente nuove grandiose speranze nell’animo di Galileo e di tutti i cattolici più progressisti: l’elezione al pontificato del cardinale Maffeo Barberini che assunse il nome di Urbano VIII.  Fiorentino di nascita, ingegno acuto ed indubbiamente sensibile alle esigenze della cultura, sembrava l’uomo inviato dalla provvidenza per portare la Chiesa su di una nuova via , un uomo che sembrava di larga apertura verso le scienze e le arti.

Avuta conferma dagli amici romani delle favorevoli disposizioni del Pontefice, Galileo decise di andarlo a riverire personalmente per saggiare il suo animo e tentare di ottenere da lui qualche impegno concreto circa un mutamento della Chiesa nei confronti del Copernicanesimo.

Giunto a Roma il 23 aprile 1624, ricevette le più vive e festose accoglienze, tanto che nel mese e mezzo di permanenza venne ricevuto ben sei volte da Urbano VIII, che giunse fino a promettergli una pensione per il figlio Vincenzio.

Ma sul delicato argomento della dottrina copernicana, che gli stava a cuore più di ogni altra cosa, il nostro scienziato non riuscì a strappare alcuna assicurazione precisa.

Giustificata o no che fosse, in quel momento, la fiducia riposta da Galileo in Urbano VIII, certamente essa rappresentò la principale molla che spinse il grande scienziato a riprendere il programma politico-culturale, arrestato nel 1616 dalla grave sconfitta subita di fronte al Sant’Uffizio.

Aveva realizzato un’opera in lingua volgare che non voleva fosse diretta solo agli specialisti di astronomia, ma un lavoro sul copernicanesimo che, sotto forma di “dialogo”, potesse essere perfettamente capita, apprezzata e alla portata di tutti.

Il titolo avrebbe dovuto essere “Del flusso e riflusso” ma gli fu imposto dall’inquisitore di Firenze il titolo :

Dialogo di Galileo Galilei, dove nei congressi di quattro giornate si discorre sopra i due massimi sistemi del mondo, tolemaico e copernicano”. 

Secondo Galileo il lavoro doveva essere un dialogo sopra i massimi sistemi che avrebbe dovuto attrarre intorno al problema del copernicanesimo l’interesse generale delle persone comuni e illuminare però anche le più alte autorità vaticane sui pericoli cui sarebbe andata incontro la Chiesa cattolica, qualora avesse voluto caparbiamente persistere nell’atteggiamento assunto negli anni precedenti.

Il primo scopo fu magnificamente raggiunto.

Ben diversamente andarono, invece, le cose riguardo al secondo fine.

Non trascorsero che pochi mesi e cominciarono a trapelare notizie poco incoraggianti sull’accoglienza del  “Dialogo”  nelle sfere più influenti della Chiesa e purtroppo anche il papa Urbano VIII passò dalla schiera degli amici a quella dei più accesi avversari di Galileo.

Immaginiamoci la delusione del Nostro quando il rapido susseguirsi degli eventi gli dimostrò la palese vanità di tutti gli sforzi da lui compiuti per indurre la Chiesa a recedere dall’atteggiamento di intransigenza anticopernicana, assunto nel 1616.

ORDINE DI COSTITUIRSI DAVANTI AL SANT’UFFIZIO

Il 25 settembre 1632 il cardinale Barberini, fratello del papa, scrisse all’inquisitore di Firenze di chiamare Galileo e di intimargli di recarsi a Roma presso la Sacra Congregazione del Sant’Uffizio davanti al Commissario del S.to Officio.

Galileo cercò di ritardare di qualche settimana il viaggio adducendo l’inclemenza del tempo ed i suoi acciacchi ma i commissari furono inflessibili dicendo espressamente che “se non ubbidisce subito, si manderà costì un Commissario con medici a pigliarlo, et condurlo alle carceri di questo supremo Tribunale, legato anco coi ferri, poiché fin qui si vede che egli ha abusato la benignità di questa Congregazione; dalla quale sarà parimenti condannato in tutte le spese che per tale effetto si faranno”.

 Si costituì al Sant’Uffizio il 12 aprile 1633 senza sapere che sarebbe stato trattenuto fino alla fine del mese.

Il Padre Commissario, il domenicano Vincenzo Maculano cerca tutti i modi per intrappolare Galileo in una rete abilmente preparata da tempo.

Il 10 maggio è nuovamente chiamato al Sant’Uffizio, dove gli vengono assegnati otto giorni onde stendere per iscritto la propria difesa. Egli però aveva già portato con sé un memoriale rivolto appunto a questo scopo; non ebbe quindi altro da fare che consegnarlo, aggiungendo:  “Del rimanente, mi rimetto in tutto e per tutto alla solita pietà e clemenza di questo Tribunale”.

Ormai l’inquisitore non aveva bisogno di altro, sentendosi autorizzato dalle stesse parole di Galileo ad assumere per vera la versione della vecchia seduta del 26 febbraio 1616, come esposta dal verbale privo di firme. La manovra abilmente preparata era riuscita in modo perfetto !

Galileo non poteva più sottrarsi alla condanna che fu emanata dopo un mese; e prima di essa doveva ancora aver luogo un ultimo interrogatorio “sopra l’intenzione”.

IL RIGOROSO ESAME DEL 21 GIUGNO

Si sentì chiedere con durezza s’egli ritenesse e avesse ritenuto, e da quando, la verità della  teoria copernicana.

Il Commissario gli contestò il contenuto del “Dialogo”, invitandolo a dir la verità, senza di che sarebbe  venuto contro di lui a rimedi “Juris et facti”.

Ricordiamo che il rigoroso esame cui fu sottoposto Galileo Galilei contemplava anche la tortura, per obbligare il reo a confessare tutta la verità.

Intimorito, sperduto in quella nuova minaccia, al limite delle forze di resistenza, aggrappato all’ultima tavola di salvezza egli rispondeva:

 “Io non tengo né ho tenuto questa opinione del Copernico, dopo che mi fu intimato con precetto che io dovessi lasciarla.”.

Null’altro fu possibile ai Commissari Inquisitori strappare al condannato e quindi, sottoscritta con mano incerta la deposizione, fu riaccompagnato al carcere del Sant’Uffizio.

Eppure tanto avvilimento e tanta angoscia, tale scempio di un’anima, ridotta ad invocare disperatamente che si creda alla menzogna che rinnega l’opera di tutta la sua vita, tale orribile delitto contro lo Spirito, non aveva per gli scopi della giustizia – comunque essa fosse concepita – più alcun senso e alcun valore. Esso non era che una delle scene predisposte da Urbano VIII, perché piena e solenne riuscisse l’umiliazione di Galileo, la restaurazione del principio ortodosso dell’autorità della Chiesa e della dignità pontificale.

Fin da cinque giorni prima il pontefice voleva che Galileo fosse interrogato “de intenzione” , con la minaccia della tortura, e quindi, previa l’abiura  da farsi dinanzi alla Congregazione del Sant’Uffizio , lo si condannasse al carcere ad arbitrio della S. Congregazione.

Riportiamo un estratto della terribile condanna:

“……….. tu, Galileo suddetto, per le cose dedotte in processo e da te confessate come sopra, ti sei reso a questo S. Offizio vehementemente sospetto d’heresia, cioè d’haver tenuto e creduto dottrina falsa e contraria alla Sacre e Divine scrittura, ch’il sole sia centro del mondo e che non si muova da oriente ad occidente, e che la terra si muova e non sia al centro del mondo e che si possa tener e difendere per probabile un’opinione dopo esser stata dichiarata e difinita per contraria alla Sacra Scrittura ………… ordiniamo che per pubblico editto sia prohibito il libro dei Dialoghi di Galileo Galilei ………… ti condanniamo al carcere formale di questo Sant’Uffizio………….. et per penitenze salutari t’imponiamo che per tre anni a venire dichi una volta la settimana li sette Salmi penitenziali ……….”

Quindi, inginocchiato, tra il silenzio dell’assemblea, Galileo pronunciò parola per parola la sua abiura:

“…………. Volendo io levar dalla mente delle Eminenze V. e d’ogni fedel Christiano questa vehemente sospitione, giustamente di me concepita, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li suddetti errori et heresie, e generalmente ogni et qualunque altro errore, heresia e setta contraria alla Santa Chiesa………… se conoscerò  alcun heretico o che sia sospetto d’heresia, lo denontiarò a questo S. Offizio ovvero all’Inquisitore o Ordinario del luogo dove mi trovarò ………….. mi sottometto a tutte le pene e castighi che son dà sacri canoni et altre costituzioni generali e particolari contro simili delinquenti imposte e promulgare. Così Dio m’aiuti e questi suoi santi Vangeli, che tocco con le proprie mani”.

L’autorità della Chiesa aveva trionfato sull’ardimento dei liberi spiriti !

L’umiliazione di Galileo, la cui fama correva per tutti i paesi civili d’Europa, doveva essere testimonio di tanta vittoria, esempio di salutare castigo, ammonimento di prudenza e sottomissione.

A VILLA MEDICI PRESSO L’AMICO NICCOLINI

E POI A SIENA DALL’ARCIVESCOVO ASCANIO PICCOLOMINI

Dopo che tutto il mondo aveva visto come si poteva punire chiunque avesse voluto mettersi contro la Chiesa si poteva ora usare benignità verso il reo, in considerazione delle sue condizioni d’età e di salute, della fama e della stima generale del suo ingegno, dell’autorità e infine dei suoi tantissimi protettori.

Galileo ottenne di trasferirsi a Villa Medici invece di restare nel carcere del Sant’Uffizio, recarsi cioè presso l’amico Niccolini che non aveva mai smesso di proteggerlo.

Le pratiche premurose del Niccolini ottennero infine che il grande scienziato potesse portarsi a Siena presso l’arcivescovo Ascanio Piccolomini, suo amico fedele che non lo aveva dimenticato neppure nelle ore tragiche  e dolorose del processo.

A Siena, lontano dai luoghi e dalle persone testimoni della sua sventura e della sua tragedia interiore, l’anima gli si sollevava, respirava la libertà, riprendeva coscienza e fiducia in sé stesso, sentiva attorno a sé anime amiche, il pensiero di nuovo fermentava.

Ora gli giungevano, dopo tanto silenzio, gli scritti degli amici , a confortarlo d’affetto e di speranze, riallacciandolo alla vita. Di tutte la più cara era la voce della sua Suor Maria Celeste, voce trepida, ma insieme calma e grave nella sua soavità femminile.

DI NUOVO TANTA CATTIVERIA DELL’INQUISIZIONE

Mentre Galileo riprendeva tra l’amicizia e il lavoro fede in se stesso e nella vita, l’Inquisizione vegliava su di lui.

A Siena curava che Galileo non si allontanasse dal palazzo vescovile, neppure per accompagnare il vescovo in campagna. L’autorità romana chiedeva all’Inquisitore fiorentino se risultasse che Galileo fosse mortificato o vi fosse ancora conventicole di amici e scolari. Nel novembre Il Pontefice si lagnò apertamente della difesa che trovavano i difensori della teoria copernicana presso chi meno avrebbe dovuto e il primo di dicembre  ordinò con decisione imperativa che lo scienziato fosse confinato nel suo villino d’Arcetri, a patto però che se ne stesse “con ritiratezza e senza ammettervi molte persone insieme a discorsi, né a mangiare”.

Pochi giorni prima che cessasse di vivere la sua adorata figlia Suor Maria Celeste era venuto ad Arcetri, nella sua casa ridotta a prigione, il Vicario dell’Inquisitore con l’ordine del S. Uffizio di Roma  e con lettera del Cardinale Barberino, ad intimargli che non richiedesse mai più di voler andare nella città di Firenze;  altrimenti lo avrebbero fatto tornare al carcere  “vero” , quello del Sant’Uffizio, a Roma.

E intanto una nuova sventura s’aggravava sul vecchio: dai primi di gennaio del 1637 “una perpetua pioggia di lacrime” gli oscurava la vista. Si oscurava la vista dall’occhio destro per cateratta o glaucoma e pochi mesi dopo l’occhio era del tutto perduto. Quello sinistro era stato sempre imperfetto e quindi a malapena  poteva ora seguire il fenomeno della titubazione lunare.

Nulla sfuggiva alla vigilanza da Roma e la clausura fu di fatto così rigorosa che in corrispondenza di una festività a lui cara fu necessario uno speciale decreto per recarsi ad udir messa nella chiesetta distante pochi passi dalla sua casa.

L’AFFETTO DEI DISCEPOLI E DEGLI AMICI

Il prolungarsi del confino in Arcetri, la tristissima perdita della vista, i molti e fastidiosi acciacchi della vecchiaia, non impedirono a Galileo di chiudere la propria vita in un’atmosfera  di serena e dignitosa compostezza.

Agli amici, ai discepoli, e perfino agli avversari, egli seppe dare col proprio esempio un’ultima lezione di umanità che non fu certo il meno notevole fra i suoi molti e preziosi insegnamenti.

Va anche osservato che l’evidente peggioramento delle condizioni fisiche ebbe, per il vecchio scienziato, almeno un effetto benefico : quello di diminuire la severità degli ordini, impartiti  contro di lui dall’Autorità Ecclesiastica.

Dal 1639 fu autorizzato ad accogliere presso di sé, nella propria villa di Arcetri, uno studioso giovanissimo e assai intelligente, Vincenzo Viviani, che ne scriverà poi il profilo biografico.

Nell’ottobre del 1641 giungerà e fu autorizzato a stare con il Maestro anche un altro giovane scienziato, Evangelista Torricelli, che sarà senza alcun dubbio il più geniale continuatore dello spirito galileiano.

IL CONFORTO DELLA COGNATA E INFINE UNA SERENA MORTE

Alessandra, sorella di Geri Bocchineri e di Sestilia - la moglie di Vincenzio Galilei - aveva conosciuto nella sua vita parecchie esperienze di dolore e di gioia. Rimasta vedova aveva sposato in seconde nozze Francesco Rasi seguendolo alla corte granducale di Mantova. Anche il Rasi però , dopo poco tempo, moriva e l’Alessandra rimaneva di nuovo sola. Non lasciò però Mantova e passò al servizio di Eleonora, sorella del Duca di Mantova.

Eleonora quando sposò l’imperatore Ferdinando d’Austria portò con sé Alessandra come dama di corte. A Vienna l’Imperatrice la presentò ad un brillante diplomatico -  il fiorentino Gianfrancesco Buonamici- che divenne il suo terzo marito. Nel 1630 ritornò però improvvisamente in Italia sfuggendo alla guerra ed alla peste.

Vincenzio si affrettò a far conoscere al proprio padre la bella e intelligente cognata e noi vediamo dalla corrispondenza di Galileo ed Alessandra che subito sorse nei loro animi una vivissima simpatia reciproca. Anche se non poté rivederla negli ultimi giorni di vita, è certo che se la sentì spiritualmente vicina nel sereno tramonto della sua vita.  A lei è diretta infatti l’ultima sua affettuosa lettera del 20 dicembre 1641.

Dai primi giorni del novembre 1641 Galileo fu costretto a tenere il letto per una febbre lentissima ma continua, con dolori di rene e forte palpitazione di cuore. Stavano ininterrottamente accanto a lui i due discepoli Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani; egli amava ancora seguire, con animo attento, le loro discussioni scientifiche, ma poteva sempre meno prendervi parte diretta.

La notte dell’8 gennaio 1642 – come ci narra il Viviani – “con filosofica   e cristiana constanza rese l’anima al suo Creatore, inviandosi questa, per quanto creder ne giova, a godere e rimirar più d’appresso quelle eterne e immutabili meraviglie, che per mezzo di fragile artifizio con tanta avidità e impazienza ella aveva procurato di avvicinare agl’occhi di noi mortali”.   Aveva 77 anni.

TANTA CATTIVERIA ANCHE DOPO LA MORTE

Galileo aveva lasciato detto per testamento d’esser deposto nella tomba di famiglia in Santa Croce. Ma da alcuni teologi s’elevò il dubbio che ad un eretico spettasse il diritto testamentario e che gli si potesse concedere sepoltura ecclesiastica. Furono però vinte queste difficoltà per l’intervento del Governo granducale e la salma di Galileo fu tumulata, temporaneamente, in una cappella laterale di Santa Croce.

Avendo però saputo Urbano VIII che era sorto il pensiero tra i fedeli di Galileo di dargli sepoltura onorevole presso la tomba di Michelangelo, fece sapere al Granduca di Toscana per mezzo dell’Inquisitore “non esser bene fabbricare mausolei al cadavere di colui che è stato penitenziato nel Tribunale della Santa Inquisizione ……… perché si potrebbero scandalizzare i buoni, con pregiudizio della pietà di Sua Altezza

Solo un Papa straniero, un polacco che aveva verificato nel suo paese cosa volesse dire mancanza di libertà, dopo diversi secoli, ebbe l’onestà ed il coraggio di riabilitare Galileo Galilei e riconoscere pubblicamente come con lo stesso grande scienziato era stata scandalosamente offesa tutta l’umanità di quel tempo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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